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Immagine del redattoreMaria Romanelli

Tempesta del Pensiero: Fame d'aria

Aggiornamento: 1 giu 2023

Ciao a tutt* :)


Questo è il diciottesimo articolo della rubrica “Tempesta del Pensiero” all’interno del blog Momenti DiVersi.


Come il mese scorso, ho avuto difficoltà nel riuscire a dedicare qualche ora a me stessa, con la mente libera da affanni e pensieri gravosi, così da potermi ascoltare per comprendere di cosa avessi bisogno, prestando particolare attenzione alle parole impiegate per esporre il mio sentire.

A seguito dell'esame obiettivo autoindotto, la diagnosi spontaneamente elaborata è stata quella di “star soffocando”. Soltanto l’idea di provare questa sensazione opprimente, che assale improvvisamente e violentemente, senza lasciare via di fuga, mantenendo il malcapitato cosciente fino all’ultimo, è estremamente terrificante.


Complici la vita frenetica e le allarmanti notizie inerenti all’alluvione che ha colpito l’Emilia-Romagna, le quali imperversano alla televisione e sui social, mi lascerò guidare dalle sensazioni suscitate da questa atmosfera morbigena nella stesura della presente dissertazione.


In questa sede non voglio e non posso, nemmeno se volessi, fare una cronaca esatta degli eventi che si sono succeduti nelle ultime settimane in Emilia-Romagna, perché non sono stata spettatrice in prima persona del disastro ambientale e umano che si è venuto a creare, e non voglio sostituirmi a coloro i quali hanno fatto esperienza di tale sfacelo sulla propria pelle.

Tuttavia, non posso restare indifferente, e sarei orribilmente menefreghista se non dedicassi il mio spazio sul blog alla denuncia contro i misfatti dell’essere umano. In veste di comune terrestre, l'essere umano è colpevole di reati quali il disboscamento irresponsabile; l'abnorme inquinamento; la sottrazione di suolo alla natura finalizzandolo ad opere di costruzione edilizia; lo sfruttamento; l'innesco di un meccanismo di perpetuo disprezzo del pianeta in cui vive; e in veste di figure politiche, l'essere umano è colpevole di non aver realizzato, negli anni passati, opere pubbliche adeguate, e di non aver nemmeno investito nella manutenzione di quelle già esistenti, così da evitare che disastri simili accadessero, e si ripercuotessero sui posteri.


Ovunque si volti lo sguardo, a parte qualche quartiere chic, o qualche collinetta baciata dal sole dove sorge una villa da nababbo, si aprono scenari fatiscenti contraddistinti da catapecchie che cadono a pezzi perché non vengono ristrutturate; case in costruzione dal paleolitico la cui data di fine lavori è procrastinata all’anno duemila-mai; rifiuti e sporcizia abbandonati sul suolo senza essere stati inseriti negli

appositi bidoni della spazzatura; erbe infestanti che crescono rigogliose e prepotenti vicino ai liquami di scarico, intasando i fossi di scolo. E nessuno esegue le necessarie opere di manutenzione, credendo che sia scontato osservare, da parte della natura, un atteggiamento remissivo e servile, il quale dovrebbe indurla a starsene relegata nei piccoli spazi in cui l'essere umano l'ha esiliata, come se lei dovesse essere conscia dell'esistenza del divieto intransigente di invadere gli "oceani" degli umani.


Tuttavia, la natura non consente all’essere umano di perpetuare tali maltrattamenti, e quando viene superato il limite della sua “pazienza”, la natura non ha scelta se non quella di scatenare la sua potenza illimitata, dalla quale non ci possiamo riparare.


E come un fiume in piena, tale potenza “straripa” e travolge tutto quello che la circonda, così la natura si riprende i suoi spazi, e cancella tutti gli argini che l’uomo aveva imposto per controllarla e sfruttarla. Purtroppo, in questi casi, la meschinità umana giudica come spaventoso tale prodigio: gli esseri umani preferiscono nascondersi dietro la paura e l’ipocrisia invece di ammettere onestamente di essere loro i veri mostri, costretti quindi a scappare di fronte a queste manifestazioni “violentemente naturali”.


Se l’essere umano fosse rispettoso nei confronti della natura, non avrebbe ragione di sottrarsi a tutti i fenomeni meravigliosi che lei determina, senza chiedere nulla in cambio.


E a pagarne le conseguenze sono sempre quegli innocenti sfortunati, che si ritrovano al momento sbagliato nel luogo sbagliato, i quali vengono travolti dall’acqua, che entra nei loro polmoni, togliendo il respiro, soffocandoli.

Ma non finisce qui, perché a causa della formazione di fango che segue la pioggia, i cadaveri restano ulteriormente impantanati e soffocati da questa massa informe ma allo stesso tempo talmente appiccicosa da bloccare tutto quello che vi rimane imprigionato, coprendo e nascondendo tali depositi dall’aria e dalla luce del sole.


E purtroppo, per quanto l’acqua possa agire velocemente, le vittime hanno tutto il tempo per elaborare il fatto di essere costrette a morire, perché in trappola, se chiuse dentro una macchina o uno scantinato; oppure, anche se si trovassero per strada e potrebbero tentare di raggiungere un approdo a nuoto, si arrendono alla disperazione di non avere abbastanza forze da resistere la corrente invincibile.

In quegli attimi, la paura rende frenetici, e si vorrebbe correre e scappare, ma non si può: sebbene l’acqua possa sembrare apparentemente innocua, perché liquida, in realtà rappresenta un ostacolo molto più arduo da affrontare rispetto ad un impedimento solido, perché circonda e avvinghia le proprie vittime, e le priva di ogni libertà di movimento, esprimendo in questo atto carcerario l’illimitata libertà di andare dove vuole, oltrepassando tutti i confini.


Ma soffoca soltanto chi rimane vittima dell’acqua e del fango?


La risposta è “no”, perché ogni reduce di qualsiasi evento traumatico rimane invischiato nella melma di interrogativi straripanti angoscia e sofferenza, vivendo i restanti giorni della propria esistenza con un senso di oppressione che occupa il vuoto lasciato dalla vita, come recitano i versi della meravigliosa canzone “Drown”, brano tratto dall’album “That’s the Spirit” della band Bring Me The Horizon: “What doesn’t kill you / makes you wish you were dead / got a hole in my soul growing deeper and deeper”.

Come ha affermato Primo Levi ne “I sommersi e i salvati”, coloro che sono “sommersi” e quindi morti; non avendo più cognizione di causa; sono immuni al dolore e alla paura che attanaglia coloro i quali “si sono salvati” dalla mera morte fisica, ma non da quella spirituale, condannati quindi a vagare nel mondo come ombre di loro stessi in quanto sono troppo vivi affinché il loro cuore cessi di battere, ma troppo morti per condurre un’esistenza che valga la pena essere chiamata “vita”.


“It’s like an avalanche / feel myself go under / ‘cause the weight of it’s like hands around my neck” così recita la canzone “Avalanche”, celebre brano dell’album “That’s the Spirit” della band Bring Me The Horizon: parole semplici che carpiscono l’essenza di una profonda sensazione deprimente, dal carico emotivo trascendente i confini del tempo e dello spazio, perché comunica a una parte della nostra sensibilità impossibile da localizzare, la cui voce è eppure estremamente suadente. E così veniamo trascinati giù, negli abissi più profondi della nostra inquietudine, senza poter risalire in superficie, perché il peso che ci portiamo dietro ci opprime, come un cappio al collo, che ci esilia nelle nostre oscurità.

Ai “sommersi” affetti da stress post traumatico (PTSD), si aggiungono tutti coloro che, per vari motivi, provano disagio. Ci sono troppi fattori di stress che inquinano la società moderna, e in un’ottica ipocrita e di finto perbenismo in cui ognuno pensa che gli altri debbano essere sempre pronti a tollerare e sopportare le stravaganze del singolo, mentre il singolo può permettersi di sfogare le proprie frustrazioni bullizzando gli altri, si va al di là degli eccessi, e si normalizza l’assurdo, mentre si addita a disdicevole e pernicioso ciò che è semplice e modesto.


Convivere con gli altri sarebbe facile se ognuno fosse consapevole di sé e si accettasse per quello che è, rispettando le caratteristiche che rendono ogni individuo diverso dall’altro, senza sottovalutare il rispetto che deve essere volto verso gli aspetti che accumunano tutti gli esseri umani: ognuno di noi ha, infatti, bisogno di mangiare, bere, dormire, usufruire della toilette, lavorare, pensare con la propria testa formulando sia ragionamenti logici che sogni idilliaci, amare e essere amat*, trovare la tranquillità e il benessere psicofisico da cui deriva la felicità; tutto questo, a prescindere dalle vicissitudini personali, familiari, sociali, sanitarie che rendono poi ogni individuo diverso dai simili.

Oggigiorno sembra quasi che, in questa atmosfera di apparente apertura mentale nei confronti di coloro che sono “diversi”, nel tentativo di abbattere questo concetto di “diversità”, gli appartenenti alle categorie fino ad ora bistrattate e relegate ai margini della società vogliano emarginare a loro volta coloro che prima, in nome di una vaga e astratta idea di “normalità”, avevano deciso cosa dovesse essere considerato giusto e cosa sbagliato.


Si fanno molti dibattiti a proposito dell' "inclusione sociale", soprattutto nelle scuole, ma non si capisce perché coloro che prendono la parola reputandosi discenti saggi,

sono proprio coloro che nel quotidiano attuano comportamenti scorretti, rendendo tali occasioni di confronto dei momenti di massima emarginazione per quei soggetti fragili che ogni giorno vengono derisi e denigrati, soprattutto all'interno delle mura scolastiche, i quali vengono percepiti come "sbagliati" e quindi conseguentemente incolpati di esistere. Queste condotte di bullismo non vengono messe in atto solo nei confronti di coloro che hanno menomazioni fisiche o psicologiche: spesso sono attuate contro ragazzi semplicemente creativi e sognatori, che percepiscono come ristretti i confini imposti dagli stereotipi sociali, i quali non si accontentano di essere ciò che gli altri vorrebbero che fossero, o di seguire il tracciato che qualcun altro ha precedentemente designato, ed esponendosi come "pesci che nuotano controcorrente", vengono esposti ad una marea esacerbante ed esasperante di offese, che si infrangono sempre più violente sugli argini dell'autostima, fino a creare una breccia, che porta al crollo del proprio essere.


Quando succede, siamo perduti.


Partendo dal presupposto che nessuno sceglie volontariamente di provare dolore e sofferenza, soprattutto quando le malattie sono fonti di tale malessere, si deve essere consci dell'esistenza di tanti fattori esterni a noi, i quali sono capaci di influenzare le nostre capacità adattative, sia in positivo che in negativo. I trigger ambientali che non possono essere cambiati, devono essere affrontati per quelli che sono, nel migliore dei modi; mentre è fondamentale agire su quei fenomeni che possono essere modificati per il meglio, perché restare passivi di fronte ai problemi non consente di eludere le difficoltà, bensì le ingigantisce, fino a quando queste non determinano talmente tanti disagi da non poter più essere ignorate.


Essendo giovane, mi rivolgo sempre agli adulti, i quali, che lo vogliano o meno, sono responsabili della vita dei posteri, sia in qualità di genitori biologici, sia in qualità di qualsiasi figura professionale o affettiva che possono rappresentare all'interno della società.

A meno che non ci siano degli adulti responsabili che guidino i giovani nel cammino verso la vita adulta, sarà difficile che i giovani riescano, da soli, a diventare adulti, in primis, e poi degli adulti responsabili.

Per esempio, se da una parte non è giusto che gli adulti, sia in veste di medici, che di professori, che di genitori...infieriscano contro giovani con problematiche che vanno da una banale tendenza alla timidezza o all'insicurezza a gravi patologie mentali come la depressione, facendo passare per cure maltrattamenti e tirannie; dall'altra parte non è nemmeno giusto che questi adulti si infischino e abbandonino a se stesse le persone che hanno bisogno di aiuto, lasciando loro la libertà di curarsi o meno, e se scegliessero di curarsi, di farlo più o meno assiduamente.

Se gli adulti sono vagabondi e menefreghisti tanto da non voler dedicare tempo ed energie nel prendersi cura dei giovani che hanno bisogno di aiuto, oppure se hanno paura a confrontarsi con i problemi dei giovani e con i giovani stessi, resi aggressivi e violenti dalle loro sofferenze, oppure se sono così sciocchi da sottovalutare le difficoltà provate dai giovani tanto da credere di poter tenere loro testa con l'arroganza e la prepotenza, non si rendono conto che i ragazzi più cattivi e maliziosi possono approfittare di questi comportamenti frivoli e superficiali per manipolare gli adulti a proprio piacimento, così da innescare un circolo vizioso che incrementa sempre più il

malessere generale. Per cui spesso si vengono a creare ambienti malsani in cui persone psicologicamente instabili, mosse da odio e rancore provati indistintamente verso il genere umano, con la compiacenza e il consenso di adulti irresponsabili, rivendicano il diritto di liberarsi dal malessere ingiustamente provato infierendo contro persone innocenti le quali, sebbene non soffrano delle medesime problematiche, presentano le proprie difficoltà contro cui devono ingaggiare una battaglia nella solitudine del proprio dolore. E non è giusto che si debba avere paura di uscire di casa perché, oltre alle proprie apprensioni, ci si debba sobbarcare quelle altrui, i quali le vomitano addosso agli altri nell’illusione di liberarsene, minacciando di diventare ancora più violenti e cattivi se si provasse a ribellarsi.


Non è giusto che gli adulti creino problemi ai giovani, e che poi, per sbarazzarsi di ogni responsabilità, lasciano che i giovani si facciano la guerra gli uni contro gli altri, nell'illusione che il segreto dell'ascesa verso il successo sociale sia rappresentata dallo schierarsi dalla parte di chi comanda e dà l'esempio, ossia gli adulti, riducendo il numero di coetanei pronti a infliggere altrettante sofferenze pur di allontanare le proprie.


Il fatto è che c’è sempre almeno una causa che scatena almeno un effetto, e spesso questa causa è un qualcosa di talmente superiore da non poter essere affrontata, ma a volte è un elemento di disturbo vicino a noi, e in questi casi, se si vuole smettere di soffrire, deve essere fronteggiato, senza scappare e senza prendersela con chi non ha

colpe. È il caso del personaggio David Karofsky, le cui vicende sono riportate nella serie Glee, il quale è omosessuale, ma non vuole accettarlo, e da ciò nasce una frustrazione immensa che lo porta a bullizzare altri ragazzi omosessuali che frequentano la sua stessa scuola, perché spera di giustificare il suo comportamento volto a nascondere la sua vera natura facendo sentire sbagliati gli omossessuali che si accettano per come sono. Lo stesso accade nella pellicola “American Beauty”, in cui il personaggio Frank Fitts, colonello in pensione, costruisce attorno a sé un’aurea di ottuso conformismo e prepotente autoritarismo nell’inutile tentativo di restare cieco e sordo di fronte alla verità che riguarda la sua sessualità, dichiarandosi testardamente omofobo.


Nella mia esperienza personale, ho avuto la sfortuna di imbattermi in persone affette da varie forme di psicosi, che se si vuole, possono essere definite lievi perché non impediscono loro di svolgere le proprie attività quotidiane in autonomia, ma sono abbastanza invalidanti da rendere queste persone estremamente vulnerabili di fronte alle proprie emozioni, impossibilitate a riconoscerle chiamandole con il proprio nome, comprenderle e controllarle. Quando le persone sono perseguitate da problemi mentali e comportamentali che sono radicati talmente nel profondo della psiche, tanto da esacerbare l'indole predisposta alla prepotenza e alla cattiveria, usano le proprie difficoltà come armi per trascinare nelle trame intricate dei propri complessi

mentali coloro i quali non hanno simili preoccupazioni. Quando questi ulteriori patimenti andranno a sommarsi all’inquietudine personale dalla quale eravamo precedentemente perseguitati, custodita nel silenzio delle proprie ombre, saremo talmente saturi di malessere da non poterlo più sopportare e crolleremo a pezzi sotto al peso di questi dispiaceri.

Se questo è allarmante, risulta molto più catastrofico il fatto che la vittima di bullismo non possa chiedere aiuto agli adulti, i quali si nascondono dietro frasi di convenienza come “bisogna aiutare chi è in difficoltà” per giustificare che il malessere di qualcuno è necessario all'apparente benessere di qualcun altro.


È assurdo voler infliggere agli altri le proprie pene, come se nel dolore altrui si custodisse l’antidoto alle proprie sofferenze.

In questo modo, oltre a privare delle cure sanitarie e umane i bulli sofferenti, si ammaleranno anche le vittime degli atti di violenza praticata più o meno consapevolmente dai bulli stessi. E si formerà una classe di adulti deboli, pusillanimi e infingardi, che non potrà proteggere i propri figli, perché non sa prendersi cura neanche di sé.

Così diventiamo tante Coraline, paladina romantica del repertorio musicale della celebre band Måneskin, la quale incarna tutte quelle persone dall'indole debole e vulnerabile, contro cui si accanisce la società malata, facendola sentire sbagliata ed inadeguata, spingendola a credere di non essere all’altezza nemmeno “di uscire da una misera porta”, privandola di ogni forza per reagire. In questo modo, mano a mano che cade preda dell'autodistruzione e dell'ansia, il suo malessere cresce a dismisura, diventando un “fiume in piena", ma poiché Coraline è incapace ad esprimere ed esternare tale malessere, questo l’avvelenerà e la soffocherà dall’interno, inducendola a rinchiudersi sempre più in sé stessa.


Invece di unirsi nei momenti di difficoltà, ci si approfitta delle debolezze degli altri per incrementare quei sentimenti di odio e di insofferenza che ci allontanano gli uni dagli altri, ed è questo continuo bullizzare e bullizzarsi che ci imprigiona e ci soffoca.


Ad ogni modo, come avevo anticipato qualche riga sopra, una categoria di persone è sempre stata bistrattata, sia in passato che nel presente, e questi audaci eroi non hanno mai smesso di lottare per gli ideali in cui hanno creduto e in cui credono, nella speranza che un giorno, i posteri non dovranno più sottostare alle insidie da loro patite: sto parlando dei sognatori, degli artisti, dei pionieri e dei precursori che hanno fatto la storia, dagli ambiti scientifici a quelli umanistici.

E qui concludo citando un’opera di un sognatore e poeta maledetto che mi ispira a portare avanti la mia battaglia non violenta di affermazione personale, e che mi fa sentire meno sola nei momenti di difficoltà: sto parlando di Charles Baudelaire.


Con la sua poesia “Spleen”, Baudelaire descrive magnificamente un’atmosfera che, nel suo apparire apocalittica e surreale, suscita in noi sensazioni di inquietudine e sconvolgimento familiari, che ci perseguitano nel quotidiano. Baudelaire descrive una giornata di pioggia, la quale crea scompiglio perché altera la visione e la percezione dell’ambiente che ci circonda, come se mescolasse i colori e alterasse le forme delle cose. Le gocce d’acqua tratteggiano linee di congiunzione tra il cielo; che si abbassa; e il suolo; che si alza; stringendo in una morsa l’uomo, il quale si ritrova in mezzo. Tali linee sono paragonate alle sbarre di una prigione psicologica da cui l’essere umano non è in grado di liberarsi: apparentemente sembra facile eluderle e fuggire, perché la pioggia non è un ostacolo solido come un muro, e non è minacciosa come un’arma puntata contro, ma la sua pericolosità risiede proprio nel fatto che non ha forma, non ha confini, non può essere ben definita, e quindi rimane un qualcosa di vano che incute dubbi ed incertezze, che confonde, in modo tale da lasciare l’uomo interdetto, incapace di elaborare la propria inquietudine così da non poterla affrontare.


E con la sua perseveranza, la pioggia continua a cadere, e cadere, e cadere, senza sosta: non si placa il senso di oppressione evocata dalla sua illimitata copiosità.

E non c’è nessuno che possa salvarci? Che possa tuffarsi nell’oceano di questi tormenti per aiutarci a tornare in superficie e riprendere a respirare? Risponderà qualcuno al grido di aiuto “don’t let me drown”?


Oppure dovremo arrenderci all’idea ineluttabile di dover sopperire ai nostri demoni, i quali non possono essere affogati perché “they know how to swim”? [“Can you feel my heart” – Bring Me The Horizon].


Con questi interrogativi vi lascio, sperando che l’articolo sia stato di vostro gradimento, e che abbia suscitato in voi interesse e curiosità.


Alla prossima!


Maria Romanelli

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