Il sole splende su ogni angolo di terra
ma la Quinta del Sordo
sta muta e immobile sotto l’oscurità
accoglie i raggi di una nuvola fitta
intensa come il nero ormai essiccato
di un pittore
se mentre mangi
Saturno assiste al tuo banchetto
masticando vigoroso la testa del tuo dio
offrigli qualcosa da bere
per mandarlo giù
chiedigli della vita nella tetra
periferia madrilena
ti risponderà
“non lo so”
e masticherà
“io non abito lì”
Francisco Goya y Lucientes
Francisco Goya y Lucientes, pittore spagnolo, è forse uno dei più famosi artisti della storia, di tendenze vicine allo stile Rococò, autore di splendide opere rappresentative del tempo, colorate vivacemente e piene di figure sinuose; praticamente sconosciuto nella prima parte della sua vita, dopo due bocciature al concorso per entrare all’Accademia di Belle Arti madrilena, diventò pittore di camera del re spagnolo Carlo IV. Quest’ultimo era all’unanimità considerato “il re inetto”, per cui lo stesso Goya non aveva fiducia. Ma la sfiducia dell’artista era una condizione generica nei confronti della classe regnante a sé stante, dell’aristocrazia dell’ancien regime ormai decaduta.
Nel 1792, l’avvenimento che gli cambiò per sempre la vita: una malattia ignota, probabilmente la sifilide o un’intossicazione dovuta al piombo dei pigmenti del colore ingerito (dal momento che era solito inumidire i pennelli con le labbra), lo blocca a letto, paralizzato. Si teme per la sua vita, ma le cose poi riprendono il loro corso: Goya sopravvive, ma tutti i colori che avevano caratterizzato la sua produzione rimangono bloccati nel suo letto.
Il pittore rimane sordo.
In viaggio verso Saturno
Ed è qui che inizia il nostro viaggio di pochi versi: la vita si spegne insieme ai suoni, lo stile si fa tetro, realista, privo di gioia.
Negli anni, la sua condizione peggiora: ormai prossimo alla morte, acquista una casa, la Quinta del Sordo che, per pura casualità, era appartenuta ad un altro non udente prima di lui. La casa diventa una fucina di dipinti inquietanti- le cosiddette pinturas nigras (“pitture nere”).
Ma tra tutte queste opere una sola passa alla storia.
Nella sala da pranzo Goya dipinge una scena mitica particolarmente famosa.
Saturno (o Crono nella tradizione greca), Titano re dell’Universo e Signore del Tempo, sposato con sua sorella Rea, vive con l’incombente profezia che prediceva che un figlio lo avrebbe spodestato. Padre di sei figli, tre femmine e tre maschi, per evitare che uno di loro adempia alla profezia li divora interi uno per uno; tutti tranne il più piccolo, che viene sostituito da una pietra proprio dalla madre Rea.
Quel bambino cresce e diventa forte, pronto ad andare incontro il suo destino; quel bambino, ormai uomo, si chiama Zeus.
Zeus che poi sconfigge il padre e tutti i Titani, inaugurando l’era degli dei.
Il dipinto di Goya ritrae il macabro banchetto del Signore del Tempo con uno dei suoi figli... Ma lo fa in modo un po’ particolare.
Momenti DiVersi
Il sole splende su ogni angolo di terra
Non specifico l’anno. Potrebbe essere ancora il 1823, anno stimato della realizzazione dell’opera, ma potrebbe essere anche oggi. Potrei essere in ogni luogo, in ogni momento. Ciò che è certo è che la luce, sia essa del sole o di un qualche surrogato volto a passare la notte, vige splendente in ogni dimora.
ma la Quinta del Sordo
sta muta e immobile sotto l’oscurità
Le pitture nere non accolgono luce. La catturano, la masticano e la vomitano senza pietà.
accoglie i raggi di una nuvola fitta
intensa come il nero ormai essiccato
di un pittore
Mentre il mondo riproduce il sole in candele e lampadine, Goya esorcizza le tenebre con i suoi pennelli, dando le sfumature più cupe ai suoi dipinti.
se mentre mangi
Il dipinto era nella sala da pranzo.
Saturno assiste al tuo banchetto
masticando vigoroso la testa del tuo dio
Il dio rappresentato è già adulto, e soprattutto, differentemente a quanto riporta il mito, non viene ingoiato per intero, ma morso come se fosse un delizioso spuntino. Già Rubens aveva rappresentato la scena mitica, ma i suoi toni catturavano l’azione prima ancora che avvenisse; il dio raffigurato su questa tela, invece, ha già perso la testa, e il suo sangue gronda giù per il suo corpo. Non si tratta di Zeus, a meno che il mito non sia stato rivisitato ulteriormente, in quanto la divinità fu l’unica a salvarsi dal banchetto infanticida. Ma chiunque sia il dio, o la dea, poca importanza ha: essi rappresentavano le stesse qualità venerate tutt’oggi dalla religione. Essi erano figli, ma erano immortali ed onniscienti: essi erano déi non diversi dal dio di ogni culto odierno. E Saturno, signore del tempo, li masticava pezzo dopo pezzo. Il tempo distruggeva ogni illusione di divinità. Staccava loro la testa.
offrigli qualcosa da bere
per mandarlo giù
Non bisogna mai essere scortesi con gli ospiti. L’arte, per quanto strana e assurda possa sembrarci, nasconde sempre un senso profondo, mistico. Anzi, forse, più è assurda e strana, più ha raccontarci.
chiedigli della vita nella tetra periferia madrilena
ti risponderà
“non lo so”
e masticherà
“io non abito lì”
Volevo che fosse enigmatico. Il dipinto, almeno prima di essere stato spostato al Museo del Pardo, alloggiava nella Quinta del Sordo, nella periferia di Madrid... o almeno è l’informazione che daremmo parlandone sotto un punto di vista artistico e professionale. E allora perché, secondo me, Saturno, ospite d’onore di un banchetto immaginario, risponderebbe che non abita lì?
Perché, in effetti, non è lì che vive. Mi spiego: l’arte ha un significato profondo, molto spesso slegato ad ogni tentativo di interpretazione. Essere un artista vuol dire saper tradurre le proprie sensazioni in qualcosa di accessibile e leggibile a tutti gli altri; e spesso, la confusione interpretativa altro non è che sintomo del groviglio mentale che tanto l’arte prova a disfare. Con un po’ di presunzione, anche io da aspirante poetessa provo a tradurre le mie sensazioni proprio come ho fatto adesso, guardando negli occhi quel terrificante dipinto. Ma se l’arte è solo una traduzione, una trasposizione, come fa a vivere in un luogo preciso? Come fa a non abitare nella mente di chi l’ha creata e negli occhi di chi continua a creare solo guardandola?
Quello che è certo è che qualsiasi interpretazione diamo all’opera, saremo sempre nel torto. Perché Goya non si aspettava la vedessimo; non l’ha dipinta per noi, e con che presunzione potremmo mai pensare che qualcuno abbia davvero dipinto qualcosa per noi?
Ma la bellezza di questo dipinto non sta nella sua interpretazione, né tantomeno nelle difficoltà che incontriamo ad analizzarla. La bellezza sta nella vicinanza che proviamo nei confronti di un artista morto quasi 200 anni fa e che non abbiamo mai conosciuto, ma al quale assoceremo per sempre quegli occhi spalancati, quel sangue grondante, quei denti pronti ad aguzzarsi per uccidere.
E forse, è questo il motivo per cui l’opera resta “il dipinto più inquietante della storia”.
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