top of page
Immagine del redattoreEduardo Mazzarella

La Nave della Rimembranza

Mi hai guardato! Tra infiniti volti, alternati dai giallastri retri, a volte pitturati da scritture indecifrabili alla prima, seconda, terza lettura. Mi hai scelto! Tu mi hai scelto! Ridi, sei in primissimo piano, capelli corti, ma non troppo, riesco a vedere fino alla fine del bavero del cappotto a doppio petto, dove sotto spicca un foulard a trama quadrata, forse nero, forse blu scuro. Lo sfondo è leggermente sfocato, sembra un quartiere residenziale futurista, quello con i grandi vialoni. Forse siamo a Milano, forse a Roma. Non vedo ombre, sarà stato nuvoloso, ma tu resti ancora lì, in primissimo piano a fissarmi con un’aria divertita, un imprenditore? Un immigrato? un ex soldato? Sul retro solo un numero: 34.


Fin dalla sua nascita, nella prima metà del XIX secolo, la fotografia ha sempre cercato di immortalare l’oggettivo, sebbene sia poi nato il movimento del pittorialismo, che ha provato a lungo ad imitare la pittura con i suoi artifici, l’essere “documento” è insito nella fotografia.


Abbiamo la certezza (o quasi) che il soggetto della foto sia stato veramente lì, davanti alla macchina fotografica (o allo smartphone).


Barthes, nella Camera Chiara, dice


La pittura, dal canto suo, può simulare la realtà senza averla vista […] Nella Fotografia, contrariamente a quanto è per tali imitazioni, io non posso mai negare che la cosa è stata la.

Barthes ci ha detto che, a differenza delle altre arti visuali, la fotografia necessita di un soggetto vero, deve necessariamente essere lì, davanti alla fotocamera, non possiamo inventarlo come si potrebbe fare ad esempio con la pittura.


Una doppia posizione congiunta: di realtà e di passato. Il nome di questo noema sarà «È stato». Tutto ciò che io vedo è esistito, si è trovato la, ma viene separato immediatamente. È presente ancora, è la, ma in differita, già morto, ma ancora vivo, presenza di una assenza, presenza già condannata: i bisnonni, ancora vivi, ma già condannati al presente morte.


Oggi come oggi è doveroso dire che ciò che «è stato» può all’improvviso divenire «non è mai stato», perché quella malinconica finestra di mondi lontani, man mano sta scomparendo, dimenticata in buste, a prendere polvere in cassetti di cui ormai ci si è dimenticati dove si trovi la chiave oppure in cantine al buio da chissà quanti anni. Se tutto va male, vengono gettati come carta sporca e di loro si perdono tracce. Però, a volte, spesso, raramente, ci sono loro: gli ultimi salvatori di questi istanti in bilico ai confini con l’oblio dell’eterna dimenticanza, gli svuota cantine e i venditori di antiquariato.


Una volta svuotata la cantina, questi misteriosi personaggi avviano il processo di smistamento della merce, quindi delle foto ai venditori ambulanti e di antiquariato (spesso i due ruoli coincidono).


«Le foto private tendono a perdere il loro significato quando vengono buttate. Si vedono spogliate della loro funzione come fonte di una memoria che è scomparsa […] ma è precisamente l’anonimato di questo materiale quello che genera un nuovo potenziale creativo. Le immagini si aprono e divengono disponibili per un ampio ventaglio di letture e interpretazioni».

Questo afferma l’artista Anke Heeleman, che con il suo progetto «Magazzino speciale di foto private dimenticate» ha collezionato più di centomila fotografie con lo scopo di porre la questione del valore di queste immagini fuori dal loro contesto originale.


Questo è alla base del pensiero delle photo-trouvée di Joan Fontcuberta, nel suo libro La furia delle immagini, la prima regola delle photo-trouvée : il loro esser mute, l’essere slegate dallo spettatore che le osserva, non avere parentela alcuna, «sciogliere gli ormeggi di ogni riconoscimento, per funzionare come schemi perfetti: schemi che accolgano i nostri fantasmi…» 

 

Allora tocca a te!

 

Eterno malinconico che sei in cerca di sguardi persi, di luoghi sconosciuti o preservati dal passare del tempo, sei tu, che smistando in bauli colmi di fotografie di cinquanta, sessanta, cento anni, in cerca di quello che Barthes chiama puntura: quella fatalità che, in essa, mi punge.


È quella! Proprio quella foto! Non so perché, mi piace, mi dice qualcosa... Sarà per quelle scarpe che indossa, sarà per quella luce tagliente, sarà per quello sguardo… Il punctum è quel particolare della foto che mi porta ad altro, è «quel sottile fuori-campo, come se l’immagine proiettasse il desiderio al di là di ciò che essa dà a vedere», è erotismo! E allora, caro navigatore delle ignote acque, salpa con me su questa nave, non temere, se sceglierai bene le tue foto, con pazienza, non salverai solamente le foto, ma pezzo dopo pezzo, recupererai te stesso, forse.


Io ci provo, lo farò “ridonando” vita alle foto che troverò man mano sulla mia rotta indefinita, ma così limpida da sapere bene come proseguire,


si parte!



42 visualizzazioni0 commenti

Comments


bottom of page