Teseo, il grande eroe del Minotauro, il leggendario re di Atene, dopo aver piantato in Nasso la sposa Arianna (quella del filo), e dopo aver generato un figlio - Ippolito - con l’amazzone Pentesilea, sposa Fedra, sorella di Arianna. Il mito di Teseo era ben noto agli ateniesi, che vi riconoscevano un leggendario capostipite e progenitore che solo la più grande polis greca (almeno dal loro punto di vista) poteva vantare - anche se a noi moderni non piace, e ogni volta ci troviamo a fare il tifo per la povera Arianna abbandonata.
Però non parlerò di Teseo e Arianna, non oggi. Perché se il re di Atene ai lettori moderni infastidisce, suo figlio è forse perfino peggiore.

Euripide, il grande tragediografo greco, a metà del V secolo a. C. mette in scena una tragedia dedicata al giovane, l’Ippolito Velato. È una tragedia scandalosa, o comunque possiamo immaginare che lo fosse - non ci è giunta, se non per pochi frammenti e per il giudizio di innumerevoli antichi, tra cui capeggia la prospettiva del comico Aristofane che definì le donne euripidee pornai, “prostitute”.
Allora Euripide ci ritenta. Nel 428 a. C. presenta l’Ippolito Coronato, e vince l’agone tragico. Ma di cosa parlava questa tragedia e perché la prima versione è stata così scandalosa?

La trama
Ippolito, crescendo, fa una scelta drastica e per vita natural durante: decide di non curarsi della dea Afrodite, dunque prediligendo una vita di castità e devozione ad Artemide, la dea vergine della caccia.
Afrodite, bella, maliziosa, ma soprattutto necessaria, decide di vendicarsi: e così fa innamorare Fedra, la sua matrigna, di lui.
Fedra è disperata e arde di passione, una passione che sa la farà sprofondare nel disonore; lei, una donna sposata, lei regina di Atene, che solo nei suoi pensieri si era macchiata di un adulterio incestuoso. Pare che, nell’Ippolito Velato, il punto di maggior pathos risiedesse proprio nella confessione dei suoi sentimenti all’amato e che proprio questo avesse creato scandalo. Nella versione a noi giunta, invece, è la nutrice che rivela tutto al giovane. Il finale è, chiaramente, tragico: Fedra decide di uccidersi, lasciando però un falso messaggio al marito in cui accusa Ippolito di averla disonorata; Teseo crede al messaggio, esilia il figlio e chiede al padre Poseidone di perseguitarlo; il giovane viene investito dal suo stesso carro e, ricondotto sulla scena in punto di morte, trova redenzione solo grazie all’intervento di Artemide ex machina.
La rhesis contro le donne
Ho detto, all’inizio dell’articolo, che Ippolito a noi moderni sta più antipatico di Teseo.
Il motivo è un lungo discorso che fa dopo aver saputo dei sentimenti che la sua matrigna provava per lui.
Giove, perché questa magagna rea
degli uomini, le donne, a luce desti?
Se tu volevi seminare il germine
dei mortali, alle donne uopo non era
ricorso avere; ma doveano gli uomini
nei templi tuoi deporre un peso d'oro,
o di ferro, o di rame, e fare acquisto
del seme dei figliuoli, indi, ciascuno
in ragione del prezzo, e in casa vivere
liberi, senza donne. Adesso, invece,
per introdurre il reo flagello in casa,
perduti van delle famiglie i beni.
E che gran male sia la donna, basta
a dimostrarlo questo solo: il padre
che la nutrí, la generò, la manda
fuori di casa, e sborsa anche la dote,
purché libero sia da quel malanno.
E quegli, invece, che in sua casa accoglie
questa genía calamitosa, gode
nel ricoprire l'idolo esecrabile
con gli ornamenti belli, e s'arrapina
intorno ai pepli, misero, e in rovina
manda la casa. Ed è, necessità.
Ché, se coi grandi s'imparenta, deve
far lieto viso a un matrimonio tristo.
Se poi buona è la sposa, e son da poco
i suoi parenti, soffocare ei deve
con le belle apparenze i suoi dolori.
Il meglio per un uomo è avere in casa
una donna da nulla, anche se inetta
e sempliciona: le saccenti aborro.
Fedra ascolta, nascosta, tutto questo discorso.
E così si toglie la vita.
Dopo le parole di Ippolito, feroce reazione alla rivelazione della nutrice, Fedra non sembra trovare altra scelta: per preservare il suo onore e non soffrire la mancanza di esso, si suicida.
E un lettore moderno non può che storcere il naso, infastidirsi, di fronte a un discorso così misogino quale quello del figlio dell’Amazzone. In cuor suo, non può che incolparlo, chiedersi “perché si è arrivato a tanto?”
Ma io voglio chiedermi un’altra cosa: come reagiva un ateniese?

“Io agli uomini darò un male, e di quello tutti nel cuore si compiaceranno, il loro male circondando d’amore.”
Quando Esiodo, poeta epico dell’VIII secolo a. C., nel suo poema “Opere e Giorni” descrive la nascita della donna fa pronunciare queste parole a Zeus creatore. La prima donna della storia è Pandora, colei che aprì il vaso liberando i mali del mondo, colei che da subito mostrò la natura infida delle donne, un dono meraviglioso, capace di creare vita, necessario- ma allo stesso tempo, forse proprio per questo, il male peggiore. Le donne sono belle e desiderabili e l’uomo ne soffre, “sia quando ha accanto una donna, sia quando non la ha”. Nulla di più. Circe, la celebre strega dell’Odissea, è così seducente che gli uomini davanti a lei diventano maiali. Elena, la femme fatale della guerra di Troia, obbedisce a Paride quando viene rapita, a Menelao quando ritorna da lui. In occasione dei giochi funebri per Patroclo, nell’Iliade, una donna è un premio che vale quanto quattro buoi. Quando Clitemnestra nell’Agamennone di Eschilo uccide suo marito, viene definita in senso sprezzante “virile”. È una tragedia, come tutte le donne.

Quindi, quando Euripide mette in bocca a Ippolito un discorso così misogino, che al lettore moderno dà fastidio e che non riesce a comprendere, non sta facendo niente di nuovo. Lo spettatore greco che assiste a questo catalogo di stereotipi non ne rimane impietrito, perché probabilmente li ha già sentiti da suo padre o dal suo vicino di casa o perfino li pensa lui stesso. Nemmeno la storia di Fedra è nuova: il motivo della donna respinta che muove false accuse di seduzione per vendetta era fortemente tradizionale, e lo stesso Euripide ne aveva parlato in altre tragedie, come la Stenebea o il Fenice.
Ma qualcosa di strano, di diverso, c’è.
A dispetto del titolo e di ciò che sarebbe stato più coerente per la tradizione dell’epoca, questa non è la tragedia di Ippolito; non è la tragedia di un uomo casto e pio sedotto dalla malvagia strega di turno che poi finisce per rovinargli la vita.
Questa è la tragedia di Fedra.
Una donna che ha in sé l’utilitarismo di Giasone e la passione di Medea, che vive sospesa tra il suo ruolo sociale e il suo desiderio di essere; è una figlia del suo tempo,
e pertanto non vuole sovvertire la moralità cui è sottoposta, ma che nella sua sofferenza, senza mai chiederlo direttamente ai suoi spettatori, instaura il dubbio.
Alla luce di una Fedra malata e dissipata da se stessa, il discorso di Ippolito, la normalità che lui ricorda, smettono di essere assoluti. È una provocazione, una lenta rivoluzione.
È il relativismo, “l’uomo misura di tutte le cose” - in Euripide, anche la donna.

Alcuni studiosi dicono che Euripide sia misogino. Altri ancora, che sia addirittura femminista.
Su quest’ultima definizione io andrei cauta; non si può immaginare un uomo del V secolo a. C. aderire a un movimento nato nel 1700 (d. C.)! Il tragediografo appartiene al suo tempo, e infatti non tutti i suoi passaggi sono, per così dire, “moderni”. Anzi: in realtà, nessuno.
Ma questo non rende forse la sua figura ancora più affascinante per noi che la studiamo? Non è ancora più bello immaginare le grandi eroine tragiche - Medea, Alcesti, Fedra - non come icone femministe, ma come simbolo di un mondo che mette in discussione se stesso, che problematizza la sua tradizione e che vede, per la prima volta, il discorso di Ippolito come “strano”?
D’altronde è questa l’eredità che ci lascia Euripide con la sua poesia tragica. È la consapevolezza, l’intelligenza, il comprendere che non esiste solo bianco e nero e che la tradizione, anche la più antica, può essere messa in discussione.
Non è questo, in fondo, il messaggio che vogliamo portare ogni volta che tentiamo di cambiare il mondo?
Non è pure per questo che, infine, dobbiamo ringraziare anche Euripide?
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