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Tempesta del Pensiero: Ma che meraviglia, qui c'è la mia famiglia

Aggiornamento: 26 nov 2023

Ciao a tutt* :)

Questo è il tredicesimo articolo della rubrica “Tempesta del Pensiero” contenuta all’interno del blog Momenti DiVersi.

È esattamente un anno che sono entrata a far parte di questo meraviglioso progetto, all’interno del quale sono stata accolta con benevolenza e rispetto, cogliendo così l’opportunità di vederlo crescere e svilupparsi, fino ad assumere il ruolo della mia “seconda famiglia”.

Ispirandomi anche al fatto che questo articolo uscirà a novembre, mese nel quale i nuclei familiari si riuniscono per celebrare la commemorazione dei defunti, ho deciso di affrontare il tema della “famiglia”.

In parte avevo già accennato tale argomento nell’articolo “4ever woman”, asserendo che, al giorno d’oggi, la donna ha ottenuto maggiore emancipazione riuscendo a entrare nel mondo del lavoro. Tuttavia, allo stesso tempo, continua a svolgere un ruolo primario nella cura della casa e dei figli, soprattutto nei primi anni di vita di questi; e quando la donna è costretta ad assentarsi per lavorare, necessita di chiedere aiuto ad altri membri della famiglia, come nonni e zii, affinché possano sostituirla nell'atto di badare ai propri bambini.

Nonostante tutto, è importante che la donna possa svolgere il proprio impiego, perché in questo modo ha la possibilità di realizzare le sue ambizioni sia a livello professionale, sia a livello affettivo. Queste ultime, sebbene indirettamente, sono sempre collegate all’essere una buona madre, perché un modo per prendersi cura della prole è rappresentato anche dallo svolgimento di un’occupazione redditizia, che consenta di guadagnare i soldi necessari a garantire una vita dignitosa ai propri cari.

Dunque, se penso al concetto di “famiglia”, nella mia mente appaiono i volti dei miei parenti, e in maniera implicita, collego a questa immagine anche il concetto di “casa”; quindi, da queste visioni, scaturisce un’atmosfera rassicurante, che mi permette di ricordare che, nonostante i cambiamenti subiti negli anni, la mia famiglia e la mia casa rappresentano le radici alle quali potrò sempre tornare, sia nei momenti di stabilità psicofisica, sia nei momenti più difficili. Paradossalmente, è proprio nei momenti turbolenti che si apprezza il fatto di sentirsi al sicuro, all’interno di un ambiente tranquillo, insieme a persone che cercano di aiutare come meglio possono.

Può sembrare una contraddizione, ma quando si necessita di trovare riparo dall'incertezza e dalla confusione caratteristiche del mondo esterno, rifugiandosi all'interno delle mura stabili e accoglienti della propria cameretta, dove regnano il silenzio e la solitudine, fondamentali per riordinare le idee; allo stesso tempo si ha bisogno anche della comprensione e della vicinanza degli altri, per non sentirsi soli nell’atto di affrontare i problemi.

Quando si è soli, ognuno considera i suoi stessi problemi come irrisolvibili e insormontabili.

Quando ci si trova insieme ad altre persone, si rischia di incorrere in avversità sempre maggiori, perché è difficile trovare dei compromessi affinché tutti i membri del gruppo si accordino per seguire una linea di pensiero e di azione comune; però, quando si riesce a creare un sodalizio genuino, le difficoltà di un membro del gruppo possono essere superate con facilità se affrontate tutti insieme, perché dove una persona sbaglia, le altre possono avere successo. In questo modo, spartendo equamente le energie da impiegare per risolvere il problema, tutti supereranno l’ostacolo in questione, senza provare la gran fatica che una persona, se fosse stata sola, avrebbe dovuto spendere, col rischio di fallire miseramente.

 

Non credo che esista una “famiglia perfetta” che non attraversi difficoltà alcuna, e non credo che esista una famiglia “giusta o sbagliata”, bensì ritengo che, poiché una famiglia è composta da persone, a seconda del carattere di queste, si possa creare un sodalizio più o meno genuino.

Ad esempio, nel romanzo intitolato “About a Boy” scritto da Nick Hornby e pubblicato nel 1998, il protagonista dodicenne Marcus si ritrova a doversi abituare, in questa età di turbolenti cambiamenti psicofisici, a modifiche altrettanto importanti a livello familiare, rappresentate dalla separazione dei genitori, dalla seguente caduta in depressione della madre e dal trasferimento in un’altra città e quindi in un’altra scuola.

Tuttavia, quella che può sembrare, in apparenza, una storia scontata, si rivela una commedia divertente e al contempo commovente: nonostante la tematica delle "famiglie allargate" possa sembrare un argomento obsoleto, nelle pagine di questo romanzo, attraverso una prospettiva originale, viene messa in risalto la capacità di Marcus; un adolescente stravagante e sfigato come tutti gli adolescenti, nelle loro diversità; di intrecciare nuove relazioni con individui non consanguinei, che hanno pensieri e stile di vita completamente diversi dal proprio. In questo modo, Marcus riesce a creare il proprio “arcipelago”, all’interno del quale, nonostante ogni individuo mantenga le proprie caratteristiche di “isola” senza rinunciare all’autonomia di pensiero e di azione, tutti formano legami di solidarietà fra loro, così da poter fare affidamento gli uni sugli altri, condividendo sia momenti di serenità che avversità, aiutandosi reciprocamente.

Quindi, non tutto il male che deriva dalla separazione del nucleo originario viene per nuocere, nonostante in molti casi, i figli di coppie divorziate vengano trascurati dai genitori, perché impegnati a ricostruirsi una nuova vita con altre persone, e può determinare l’innescarsi di un sentimento negativo di non-accettazione nella psiche dei figli stessi, spesso in maniera inconscia, creando un baratro di disperazione che col tempo sarà sempre più difficile da risanare. Ad esempio, il film “To the Bone”, pellicola del 2017 scritta e diretta da Marti Noxon, vede come protagonista la ventenne Ellen, ragazza affetta da anoressia, sviluppata per esprimere il disagio provato a causa della difficile situazione familiare in cui si ritrova, impossibilitata ad instaurare una relazione stabile col padre, il quale è sempre assente perché costretto a lavorare molto per mantenere la sua seconda famiglia, e l’ex moglie e madre naturale di Ellen. Se questo non bastasse, Ellen non ha buoni rapporti nemmeno con la madre biologica, la quale, a causa della depressione post-partum, non è riuscita a prendersi cura della figlia, rifiutandosi si allattarla al seno e quindi di stabilire un legame che non solo sancisce la sopravvivenza del neonato attraverso il nutrimento, ma va al di là del materiale, poiché rappresenta l’atto di affetto più significativo di sempre, continuando poi ad allontanarla negli anni successivi.

 

Il tema della “famiglia” è estremamente delicato, perché questa rappresenta il fondamento della propria persona, in quanto le prime esperienze di vita vengono vissute a contatto con i parenti, le quali si imprimono, più o meno profondamente, nell’animo, innescando lo svilupparsi o l’estinguersi dei tratti che caratterizzeranno la

personalità di ognuno di noi, andando così a plasmare il temperamento dell’individuo, il quale delinea e riconosce la propria identità all’interno del gruppo di appartenenza, a seconda dei rapporti che ha instaurato con gli altri. Poiché le persone non vivono sole, bensì sono perennemente circondate dai simili, a seconda dei legami che si intrecciano, il carattere di ognuno subisce dei mutamenti, i quali consentono al singolo di adattarsi alla situazione che sta vivendo e alle persone che lo circondano.

Spesso, nella famiglia, si vengono a definire dei ruoli che agevolano la creazione di

limiti e tabù implicitamente espressi, ma esplicitamente rispettati, per creare ordine e armonia tra persone che, nonostante condividano un patrimonio genetico simile, sono sempre menti che pensano e corpi che agiscono in maniera totalmente diversa. Quindi esiste la “figura paterna” di solito considerata autoritaria e lavoratrice, la “figura materna” di solito vista come comprensiva e paziente, e “i fratelli e le sorelle”, più o meno dispettosi, più o meno affettuosi, eccetera eccetera.

Di solito, come mi capita di vedere, dove c’è un debole, questo si accompagna ad un forte, e ciò vale tra compagni/coniugi, tra fratelli e sorelle, tra zii e nipoti, eccetera eccetera, e anche tra gli amici in quei casi in cui si stabiliscano dei sodalizi significativi tra persone non consanguinee con cui si è venuti a contatto tramite la frequentazione dei medesimi luoghi, come la scuola, o lo svolgimento delle stesse attività ricreative.

Purtroppo, la violenza domestica dilaga, e oggigiorno vanno di moda coppie composte da un partner che si avvale delle qualità possedute, oppure della presunzione di possedere qualità che in realtà non possiede, per imporre la propria autorità sull’altro partner meno bello, meno intelligente, meno “fisicato”, e meno emancipato economicamente. Così, oltre a vantarsi di aver instaurato una relazione fissa, spesso con persone single, nella speranza di godere dell’invidia di queste ultime, nel frangente, il partner più abbiente si sollazza di fare bella figura se messo a confronto del partner più disagiato, il quale, disperato di poter essere apprezzato a causa della parvenza poco esaltante, preferisce mettersi alle dipendenze dei simili, subendo un'ingiustificata umiliazione, piuttosto che arrendersi alla solitudine, nella vana speranza di raggiungere uno status sociale più prestigioso una volta che si sarà prestato all'annichilimento masochista della propria personalità.

 

La solitudine è il nemico più temuto dall’essere umano, il quale infatti, previa definizione aristotelica, è un “animale sociale”, poiché necessita di vivere insieme ai

propri simili. A volte, all’interno di una famiglia, un soggetto può identificarsi con un familiare, perché considerato un buon esempio da seguire, rinunciando più o meno inconsciamente a sviluppare una personalità propria per emulare in tutto e per tutto colui che ha designato a leader; mentre a volte, la personalità di un soggetto si definisce proprio in contrapposizione a coloro con cui vive, perché animato dal bisogno e/o dalla curiosità di sperimentare cose nuove, e di distinguersi dal gruppo, isolandosi. Essere “diversi” non facilita il processo di omologazione all’interno di un gruppo, in quanto, al fine di garantire l’armonia senza che un membro prevalga sugli altri, tutti sono costretti a cedere parte della propria libertà in favore dei compromessi che semplificano la convivenza di più entità all’interno un unico insieme. Tuttavia, se ci si distingue perché non si è in grado, oppure perché non si vuole rinunciare a esprimere liberamente ogni aspetto della propria personalità eludendo le regole e i tabù propri del vivere in comunità, è difficile essere apprezzati e quindi accettati, e si rischia di

essere esclusi dalla società.

Il concetto dell’essere diversi stando in team è rappresentato in molti film d'animazione, ad esempio ne “L’Era Glaciale”, animali appartenenti a specie differenti formano un sodalizio per scampare a pericoli comuni, non senza evitare litigi, i quali mettono in evidenza quanto appaiano insormontabili ed inconciliabili le difformità che caratterizzano i vari personaggi; ma alla fine, la magia che consente loro di instaurare una profonda amicizia sta proprio nell’accettare l’assenza di affinità tra loro.

Al contrario, nei film d’animazione con protagonista Shrek si affronta il tema delle pseudo-libertà che la solitudine offre. Vivere soli consente di definire la propria personalità in maniera diversa rispetto a quando essa viene a plasmarsi stando a contatto con i simili: quando si è soli, si è comunque in compagnia di noi stessi, e la proiezione di noi che risiede nella nostra mente rappresenta un’entità con la quale ci confrontiamo, scambiando opinioni durante la ponderazione delle decisioni da prendere a proposito delle azioni da compiere o da non compiere, sia su questioni banali che complesse. Quando si è soli, ci si illude di poter fare tutto quello che vogliamo, come e quando lo vogliamo, credendo di essere liberi da ogni vincolo e responsabilità; tuttavia, anche la solitudine ha i suoi limiti, quindi, se apparentemente sembra di essere liberi, col tempo, si rischia di diventare schiavi della stessa solitudine, la quale ci impedisce di provare soddisfazione nell’atto di creare contatti anche con quelle poche persone con cui vale la pena avere rapporti, perché non si riesce a far fronte alla delusione provata nei confronti del genere umano, la quale ci fa cadere nella dipendenza dalla solitudine.

 

Rifuggire la società non è umano, infatti, l’atto di esilio da questa è una protesta da

parte del singolo, il quale può non sentirsi a suo agio fra i simili, ma non può evitare di avere contatti con qualcuno, e soprattutto quando quel qualcuno è la famiglia, perché, nonostante gli scenari peggiori, non si può evitare di confrontarsi con i fantasmi del proprio passato, sia che si decida di affrontarli, sia che si opti per rinnegarli e fuggirli.


Nessuna famiglia è perfetta, e anche se qualcuno sostiene di vivere una situazione

idilliaca dove nessuno litiga e tutti vanno d’amore e d’accordo, è molto probabile che nasconda dietro le ante dell’armadio degli scheletri che, per quanto stirati e sistemati in pile ordinate siano, restano sempre verità tristi e scomode da obliare.


Poi ci sono quelle persone che preferiscono allontanarsi dalla famiglia, perché contestata più o meno apertamente, e decidono di cambiare vita, stanche di ingaggiare un litigio per qualsiasi pretesto, o di sopportare atteggiamenti considerati sbagliati.

Ci sono esempi di situazioni simili nella storia del cinema, che mostrano la fragilità umana rappresentata sia dalle madri che dai padri lasciati soli, ma anche dai partner che abbandonano il nucleo familiare.

Per esempio, in “Kramer vs. Kramer”, film del 1979 diretto da Robert Benton, emerge la tenerezza di Ted Kramer, che dopo aver rinunciato alle proprie ambizioni lavorative, si vede impossibilitato a realizzare di dover assistere all’affidamento del figlio alla ex-moglie, Joanna Kramer, dalla quale si è separato dopo che questa se n’è andata di casa, perché si sentiva oppressa dal marito, il quale aveva assunto un comportamento assente e menefreghista nei suoi confronti, senza curarsi degli interessi di Joanna, diventando, quindi, la causa del burn-out di lei.


Dal mio punto di vista, col mio carico di imperfezioni personali e familiari, posso dire di aver avuto la fortuna di essere stata educata a sviluppare una mentalità aperta, che mi sprona, nonostante anche io possa sbagliare, a non fermarmi a giudicare solo le apparenze. Quindi, non critico una famiglia come “sbagliata” se questa è allargata, oppure se è formata da individui dello stesso sesso, oppure se i partner hanno figli sebbene non siano sposati né civilmente, né religiosamente, perché credo che l’unico modo per misurare il successo o il fallimento di una relazione siano i sentimenti che legano i componenti di quell’insieme. Infatti, se questa unione funziona perché le persone riescono, nella loro imperfezione, a creare armonia e ad infondersi conforto a vicenda, allora non importa chi siamo e con chi stiamo, basta che ci si voglia bene e che si faccia del bene.

A discapito di tutte le controversie e i problemi che si preferirebbe non dover affrontare per avere una vita più semplice, io sono fermamente convinta che sia bene apprezzare quelle persone che, nonostante tutto, invece di arrendersi alla prima difficoltà, restano, e si mettono a disposizione per cooperare affinché il legame precedentemente creato rinvigorisca, sebbene il prezzo da pagare sia essere feriti e soffrire, perché si soffrirebbe di più se tale unione venisse sciolta. Mi rendo conto che non è sempre possibile tenere in piedi un rapporto, perché ci sono delle realtà nocive da cui è bene allontanarsi, per quanto sia doloroso dover abbandonare le proprie origini. Da una parte ci si può sentire liberi da legami troppo soffocanti da poter sostenere, ma allo stesso tempo, si prova frustrazione di fronte alla

crudele realtà di dover accettare che le persone considerate “famiglia” possano commettere delle azioni irresponsabili, dimostrando di non voler deliberatamente bene ai familiari, oppure, nonostante la buona volontà, di non essere in grado di prendersi cura di questi, impossibilitati a garantire l’affetto e il sostegno necessari. Perché nonostante tutto, si necessita di vivere in compagnia degli altri, e la compagnia della famiglia è pressoché insostituibile.

 

Quindi, è vero che, in alcune situazioni, la separazione tra i membri della famiglia è

più necessaria che giusta, perché non è genuino vivere all’interno di relazioni in cui, per compiacere il partner e far sì che il rapporto funzioni, l’altra parte sia costretta a farsi mettere i piedi in testa, come succede in “Mrs. Doubtfire”, pellicola del 1993 diretta da Chris Columbus, dove Miranda decide di divorziare dal marito, Daniel, in quanto non riesce più a conciliare i suoi progetti di vita con lui, lamentandosi di non poter più sostenere una situazione in cui la convivenza e la sopportazione del marito la inducono a mettere in mostra la parte peggiore di sé.

Anche in Marriage Story, film del 2019 diretto da Noah Baumbach, si affronta la questione del divorzio richiesto da parte della protagonista femminile, Nicole, la quale rivendica di essere insoddisfatta di vivere accanto ad un uomo che, in un contesto diverso da quello narrato in “Mrs. Doubtfire”, mette comunque in atto dei comportamenti eccentrici, visti come una minaccia volta a schiacciare l’identità della protagonista.


Ho apprezzato la visione di entrambe le pellicole, e mi hanno permesso di riflettere sul fatto che, nonostante ci possano essere delle diatribe tra i partner, è importante sia rivalutare le proprie posizioni, sia cambiare atteggiamento e apprezzare quanto gli altri si impegnino nel tentativo di migliorarsi per il bene dei figli, senza dimenticare che, sebbene la relazione tra i partner possa essersi compromessa, i figli necessitano

sempre di essere supportati dalla famiglia. Forse, è meglio che i genitori siano separati, così che possano evitare di coinvolgere i figli nelle loro dispute riguardo le divergenze personali, riuscendo comunque ad accordarsi per aiutarli nel momento del bisogno, facendo gioco di squadra per raggiungere un obiettivo più importate dei propositi personali; piuttosto che fingere di andare d’accordo per salvare le apparenze quando in realtà si detestano, e ingaggiano delle sciocche faide con lo scopo di sabotarsi a vicenda, creando una situazione di inquietudine e nervosismo palpabili eppure indefinibili, perdendo di vista quello che dovrebbe essere la loro unica finalità, ossia il benessere dei figli, i quali vengono irrimediabilmente lasciati soli.

 

Litigare è orribile, è vero, ma a volte è necessario per trasmettere in maniera esplicita

e inequivocabile le proprie necessità, così da richiamare l’attenzione delle persone che ci vivono intorno, per dar loro indicazioni su come e cosa fare per aiutare a risolvere i problemi. È anche vero che, a volte, si arriva ad affermare delle cose che non si pensano realmente, e si prova rammarico a causa di ciò, perché è fastidioso dover riconoscere di aver sbagliato, dovendo rimangiarsi le parole dette, e spesso l’orgoglio impedisce di chiedere scusa e di fare un passo indietro, quindi, in questi casi, tocca alla parte offesa fare un passo indietro e perdonare sia il danno ricevuto, sia l’incapacità di ammettere

l'errore compiuto da parte dell'altra persona.

Tuttavia, non è sempre scontato che questo accada, perché anche la parte offesa ha il suo orgoglio, che chiede rispetto, e quindi non si è sempre disposti a perdonare le mancanze degli altri, quando queste arrecano danni ripetutamente, senza che vengano attuati comportamenti riparativi.


Se è vero che ogni situazione è differente dalle altre, e nessuno prova le medesime difficoltà allo stesso modo degli altri, perché ognuno è diverso e ognuno ha la propria storia personale da vivere; tuttavia, è anche vero che ci sono delle lezioni che possono

essere apprese dagli errori commessi dalle generazioni precedenti, in maniera tale da dare un senso agli sbagli commessi in passato, evitando di ripeterli, trovando delle soluzioni che arginino tali controversie, così da migliorare l’andamento dell’esistenza. È il messaggio che ho colto guardando il meraviglioso film d’animazione “Coco”, datato 2017, ambientato in Messico durante la celebrazione del Dia de Muertos, in cui vengono narrate le vicende di una famiglia che sembra

irrimediabilmente divisa da un malinteso perpetratosi nelle generazioni. Oltre alla magica e soprannaturale atmosfera in cui vivi e morti si incontrano, e alla suspense creata con abilità e accuratezza dal succedersi degli eventi, emerge la tenerezza dei personaggi che si scopre piano piano con l’evolversi della vicenda, i quali insegnano che, attraverso il dialogo e il confronto, si possono abbattere le insulse barriere di fraintendimenti che impedirebbero, altrimenti, di provare un incondizionato sentimento d’affetto, in tutta la sua semplicità e sincerità.


Nella speranza di avervi incuriosito e di avervi regalato dei momenti di spensieratezza, ma anche nuovi argomenti di riflessione, vi lascio e vi saluto.


Alla prossima!


Maria Romanelli

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