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Poetry Experience: “I Versi della Rosa” e altre cose inutili



La società cerca di assimilare, di integrare, certo: è un’operazione che deve fare per difendersi. Però non sempre ci riesce, a volte ci sono delle operazioni di rigetto. Tanto più poi che non possiamo parlare di poesia come di merce: io produco, ma produco una merce che in realtà è inconsumabile, e quindi c’è un rapporto strano tra me e i consumatori. […]morirò io, morirà il mio editore, moriremo tutti noi, morirà tutta la nostra società, morirà il capitalismo ma la poesia resterà inconsumata.


(tratto dall’intervento di Pasolini alla trasmissione di Enzo Biagi, “Terza B: facciamo l’appello”, in programma per il 27 luglio 1971. Chiaramente, non andò mai in onda. Chiaramente, oggi l’hanno vista un po’ tutti.)



 



In questo paese tutti vogliono guardare e fare le stesse cose che fanno sempre. È scoraggiata la novità”. A dirlo è una donna ancora giovane, proprietaria di una piccola libreria per bambini e ragazzi in un paesino della provincia di Napoli. Non uno dei più anonimi, a dir la verità; Somma Vesuviana è infatti una culla di storia senza precedenti, in cui chiese barocche si alternano a testimonianze di storia medievale, arroccate nello storico borgo del Casamale, in cui un contadino lavorando la terra trova per sbaglio la villa in cui potrebbe essere morto Ottaviano Augusto (apud Nolam) e, sempre per sbaglio, tra la vegetazione si nascondono grotte antiche inesplorate. Che probabilmente tali rimarranno.

Nella cornice del braccetto tra cultura e indifferenza, Giuseppina D’Avino, classe ‘97, scrive un libro di poesie. E se già mettendo la penna su un foglio ammette la sua disobbedienza a un mondo che chiede più lavoratori e meno scrittori, lei fa ancora di più: presenta il suo libro di poesie al teatro Summarte, proprio a Somma Vesuviana.

E come se la sua irriverenza non bastasse, fa un ultimo affronto, stavolta al mondo stesso della poesia: nessun reading, nessun racconto della sua travagliata interiorità seduta a un tavolo di conferenzieri in pensione che non hanno mai letto né il suo libro, né tutti gli altri che hanno presentato negli ultimi dieci anni.

Perché la prima donna a salire sul palco non è lei, ma Maria Benedetta Sommese, con un abito rosso lungo e una simpatia che non si è lasciata piegare dall’emozione.



I Versi della Rosa è la raccolta di Giuseppina D’Avino, edita Bertone Editore, di cui al termine della presentazione non sappiamo niente. E d’altronde a noi cosa importa?

Cosa importa a noi persone abituate sempre alle stesse cose, agli stessi posti, alla stessa gente? Cosa interessa alle istituzioni assenti ogni qualvolta si parla di giovani, perché troppo impegnate a condividere sui social quei post che invece li fanno fuggire a gambe levate?

E verrebbe da chiedersi: cosa dovrebbe importare all’autrice, che si è condannata a dover scrivere senza essere capita e soprattutto senza guadagnare, offrendo al mondo bellezza in cambio di un pugno di rose?



Raffaella Romano indossa una maschera, il simbolo del mondo che l’autrice ha tentato di tracciare. Marco Gallo recita a gran voce i versi della giovane donna, dando loro una vita tutta nuova, insieme proprio a Maria Benedetta Sommese, che è contemporaneamente conduttrice, attrice e relatrice. I due si affrontano sul palco, la poesia sembra prendere vita, si segue una storia in cui ciascuno dà un’interpretazione diversa, rivelando tutto il senso dell’arte. Il tutto accompagnato dalle musiche e le scenografie dell’autrice stessa, senza dimenticarsi dei trucchi semplici ed efficaci della make up artist Nora D’Avino.

Alla fine della presentazione non sappiamo niente, ma in realtà sappiamo tutto; perché per quella mezz’ora - tanto è durata, quanto bastava - il cervello è entrato in un mondo diverso, ogni forma d’arte si è intrecciata a coronare la penna sublime della poetessa sempre presente in ogni dettaglio ma sempre in secondo piano, sempre pronta a mettere innanzi i suoi amici e a far salire sul palco perfino me, un’aspirante giornalista, una poetessa in tirocinio che ha conosciuto attraverso i social meno di una settimana prima.

Ero così emozionata che non sono riuscita a ringraziare tutti quanti, uno per uno.

E lì sul palco ho pensato a Pasolini, alla sua intervista mai andata in onda, a noi “operatori culturali” che siamo costretti ogni giorno ad essere più operatori e meno culturali per avere il pane a fine mese.

Grazie a tutti voi, ragazzi.

Perché in questa piccola grande rivoluzione, in un piccolo grande paese, avete fatto capire che il mondo, un giorno, cambierà.

E ci saremo noi, verso dopo verso.




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