Ciao a tutt* :)
Questo è il 23esimo articolo della rubrica “Tempesta del Pensiero” all’interno di Momenti DiVersi.
La stesura di questo articolo è stata ispirata dalle Olimpiadi di Parigi 2024: essendo un evento eccezionale, i giochi olimpici sono stati sulla bocca di tutti per l'intero periodo durante il quale si sono svolti, ma piano piano saranno dimenticati da qui al 2028, soppiantati dalle notizie inerenti a guerre, calamità naturali e “calcio, calcio, calcio” (unico sport che a quanto pare va di moda in tutte le stagioni, senza perdere mai la sua "priorità").
Dunque, la mia riflessione non riguarda aspetti oltremodo dibattuti come i quid pro quo della cerimonia di apertura; l’inquinamento della Senna; la precarietà con cui è stato allestito il villaggio olimpico, e non è stata ispirata nemmeno dai molteplici meme realizzati da tutti quei soggetti “ormonalmente” instabili che minimizzano l’immenso concetto di “disciplina sportiva” in “guardo una competizione perché gli atleti sono dei bonazzi mezzi nudi”; con tanto di riferimento agli atleti attraverso il paragone con leccornie culinarie, come se i meme fossero diventati una sorta di menù per cannibali.
Con la mia riflessione non tento nemmeno di sviscerare tutte quelle manfrine inerenti a problematiche che riguardano la vita privata o la preparazione degli atleti: tipo stato di salute e infortuni, rapporto atleti e intero staff che ruota intorno a loro prima - durante - dopo ogni allenamento o gara; e nemmeno di commentare le numerose circostanze in cui gli arbitri hanno dato prova di non sapere o di non voler essere “arbitrari”.
Quello che ho pensato guardando i Giochi Olimpici di Parigi 2024 è stato: sono arrivata a avere quasi 23 anni, e non mi sono mai appassionata ad uno sport. Seguire le imprese dei vari atleti, in special modo quando ho avuto modo di vedere le gare dall’inizio alla fine, stoccata dopo stoccata o bracciata dopo bracciata, ho potuto sentire, o per lo meno immaginare di sentire quel misto di dedizione - passione - sacrificio e tanto altro che rimane dietro le quinte della prestazione, sia che risulti in una vittoria, sia che risulti in una sconfitta. E in quegli attimi fugaci, attraverso i respiri profondi, le apnee, i pianti liberatori, gli urli di sfogo degli atleti, ho provato, di riflesso, un oceano travolgente di emozioni adrenaliniche. Allora mi sono chiesta: dato questo mio interesse, perché non ho mai praticato una disciplina sportiva, anche soltanto in maniera amatoriale?
Dall’analisi del mio singolo caso, ho ampliato il campo di studio guardandomi intorno, rendendomi conto che la questione ha origini nell’infanzia: da piccoli, non abbiamo una facoltà di decisione eccessivamente sviluppata, proprio perché lo spirito critico
necessita di tempo per evolversi, e quindi si vive di riflesso seguendo l’esempio degli adulti con cui si ha a che fare, e questo è il motivo per cui incolpo la cattiva condotta degli adulti, almeno la maggior parte delle volte, per la disfatta dei giovani. Se nelle famiglie i genitori non coltivano interesse per lo sport, è molto probabile che un bambino, non ricevendo tale stimolo, non sviluppi mai interesse verso di esso. Un altro fattore impattante è la precarietà economica che le famiglie possono sperimentare, in quanto, soprattutto nei piccoli centri, dove non ci sono ambienti dedicati, risulta necessario avere a disposizione un mezzo proprio (e in termini economici si traduce in “bollo, assicurazione, revisione, carburante, eventuali riparazioni apportate dal meccanico e/o carrozziere”) per accompagnare i figli presso il luogo in cui si svolgono gli allenamenti. Per non parlare del tempo che l’accompagnatore deve sottrarre a se stesso durante i tragitti; soprattutto se bisogna aspettare in loco durante tutta la sessione di allenamento, la quale si ripete tot volte a settimana. Con l’aggiunta delle gare nel fine settimana. Last but not least, servono risorse economiche per pagare lo svolgimento dell’attività sportiva e di tutto il materiale che serve per poterla praticare.
Se anche una famiglia potesse permettersi tutto questo, sarebbe altresì necessario che disponesse di una dote che non è possibile comprare con il denaro: ossia l’intelligenza, da cui deriva il rispetto di sé e degli altri. Se non si è intelligenti, non si ha modo di insegnare che, di base, l’attività fisica, qualunque sia la sua espressione, nel contesto di uno stile di vita sano, è essenziale per mantenersi in salute perché consente di controllare il peso corporeo riducendo il rischio di insorgenza di malattie cardio-vascolari. E in seguito, quando l’attività fisica, da fine a sé stessa, diventa una disciplina sportiva, se si è carenti di intelligenza, non si ha modo di educare al rispetto dei punti di forza e dei limiti propri e altrui. Quindi, si finisce per trasformare una partita di calcio o di pallavolo (perché il primo è lo sport d’elezione per maschi, e il secondo è lo sport d’elezione per femmine) in una rissa o in uno scontro all’ultimo sangue di palla-prigioniera: quindi da un incontro pacifico, si determina una crudele violenza.
E accanto ai genitori, i secondi principali istigatori di questa violenza sono, nel privato, gli allenatori più disonesti (per non parlare di coloro che gestiscono le palestre: i quali non hanno interesse a seguire i clienti che non rientrano nella ristretta “serie A” dei “pompati – con il cervello mezzo vuoto – vestiti nudi"); e nel pubblico, i maestri/professori di ginnastica.
“Quelli che non sanno fare, insegnano; e quelli che non sanno insegnare, insegnano ginnastica” afferma Black Jack nella celebre pellicola “School of Rock”.
Magari non bisogna fare “di tutta l’erba un fascio”, ma in questa affermazione c’è un fondo piuttosto solido di verità. Le famiglie affidano i figli alla scuola affinché (in teoria) questi possano essere educati a diventare cittadini, sia attraverso le nozioni di cultura, sia venendo a stretto contatto con se stessi e con gli altri, ad esempio nel contesto della sana competizione che dovrebbe determinarsi durante i giochi praticati nelle ore di educazione fisica. E questo sicuramente non succede quando gli insegnanti di ginnastica si voltano dall’altra parte nei momenti in cui gli alunni più prepotenti danno libero sfogo alla propria ferocia tirando deliberatamente cannonate in faccia al capro espiatorio di turno; oppure quando gli insegnanti stessi istigano gli alunni più depravati ad organizzare le squadre per intavolare una partita (obbligatoriamente di pallavolo o calcio), escludendo in maniera mirata dei soggetti specifici con l’intento di fare del vero e proprio bullismo.
Non si tratta soltanto di emarginare chi è “meno bravo” fisicamente parlando, perché, ad esempio, non esiste una regola della pallavolo che dice “per fare punto devi spaccare il naso dell’avversario”, quindi il fatto di tirare delle cannonate non sancisce la differenza tra chi è bravo e chi è scarso nella pallavolo: quando si esclude qualcuno durante la formazione delle squadre, si afferma apertamente “io non ti scelgo perché per me non vali niente”; e quando si colpisce qualcuno, si afferma apertamente “io ti voglio picchiare, e per farlo senza essere punito, nascondo la violenza dietro un atto sportivo, così io non mi prendo alcuna colpa, mentre tu subisci il dolore fisico e in più quello psicologico, perché dimostri di non saper reagire, attirando lo scherno di tutti, insegnanti compresi”.
Ritrovarsi da soli, senza difese, e rendendosi conto che proprio le persone che dovrebbero tendere una mano sono i principali aguzzini, non porta altro se non a farsi del male, perché l’odio che si prova per gli alunni, e soprattutto per gli insegnanti, si riversa sullo sport, e l’odio per lo sport allontana anche dalla semplice attività fisica intesa come, banalmente, passeggiare all’aria aperta, ossia attività che non richiama nemmeno vagamente l’idea di “sport”, con conseguente predilezione della sedentarietà. E soprattutto, oltre alla salute fisica, se ne va la salute psicologica, perché di fronte a tali insuccessi e a tanta insensibilità, si finisce per perdere fiducia in se stessi, e per quanto non si posseggano doti particolari per lo sport, si finisce per non riuscire a reggere tanta negatività, quindi a perdere completamente la fiducia in se stessi, rinunciando a tutto prima ancora di iniziare.
Questi terribili ricordi sono affiorati nella mia mente a seguito della presa di coscienza della condotta non-sportiva di molti giornalisti, e degli stessi atleti/ex-atleti nei confronti dei propri pari che non sono riusciti ad eccellere: è ovvio che si prova dispiacere quando non si riesce a conquistare il podio, è ovvio che si è scontenti di sé quando si perde, è ovvio che si invidia chi ci ha sconfitti; chi si è impegnato nella competizione mettendoci faccia e fatica lo sa meglio di chiunque altro, e non ha bisogno di essere mortificato affinché possa prendere atto delle proprie emozioni.
Non è nemmeno necessario osannare chi vince, per poi restituire, alla prima prova fallita, il quadruplo di quelle che prima erano ovazioni sotto la forma di calunnie cariche di disprezzo. Ma soprattutto, è assai scorretto immolare a fenomeni sovrumani alcuni atleti, non in virtù delle proprie capacità, ma solo perché sono particolarmente arroganti, e attaccano gli altri (i giornalisti, in questo caso) prima che gli altri possano colpirli, riuscendo così a nascondere dietro a qualche sporadica vittoria le migliaia di occasioni mancate.
Lo sport è arte: è un processo di evoluzione che coinvolge sinergicamente la mente e il corpo, in quanto plasma la prima così che possa immaginare il movimento, e il secondo affinché possa realizzarlo; e questo movimento non possiede soltanto connotati fisiologici, bensì è un prodigio che si determina quando nell’atleta si scontrano e si amalgamano l’osservanza delle regole tecniche (che è necessario rispettare per effettuare una prova valida), e quel qualcosa di indefinibile – quel tocco magico – che trasforma un’azione banale in qualcosa di straordinario.
Sicuramente può aiutare il fatto di possedere delle caratteristiche fisiche che “facilitano” la pratica delle varie attività sportive, quali, ad esempio, una buona vista, o un elevato grado di flessibilità; e anche emotive, quali il coraggio per sfidare se stessi, nonostante si sappia che, qualora si sbagliasse, ci si potrebbe fare del male; e la pazienza per aspettare di guarire e quindi di dover riprendere ad allenarsi dal principio prima di poter affrontare nuovamente l’ostacolo tanto insidioso che ha “sbarrato la strada”.
Questo non significa che soltanto gli eletti che possiedono queste caratteristiche possano fare sport: chiunque, in base alle proprie possibilità, può intraprendere la pratica di una disciplina sportiva in tutti i suoi tecnicismi, oppure fare anche soltanto una passeggiata; ossia dell’attività fisica che per quanto banale sia, risulta incredibilmente benefica per il corpo e per la mente, acquistando la connotazione di svago/divertimento/gioco/pausa dal trantran quotidiano/cura di se stessi/momento di socialità se eseguito insieme ad altre persone.
Esponendosi al pubblico, a qualsiasi livello sociale e mediatico, gli atleti e a maggior ragione lo staff di preparazione, devono assumere caratteri di competenza, responsabilità, serietà; in quanto si pongono come degli esempi da imitare; tuttavia, è ovvio che non possono essere irreprensibili al cento per cento, perché è necessario che emerga il lato umano, il quale permette loro di sentirsi vicini a chi si rivolge loro per imparare, sia che si tratti di apprendere la tecnica per affrontare una
competizione, sia che si tratti di comprendere i valori morali che dovrebbero queste figure ispirare; e il primo che mi viene in mente – diversamente a caso – è l’amore.
“Cause love's such an old-fashioned word / And love dares you to care for / The people on the edge of the night / And love dares you to change our way of / Caring about ourselves” insegnano David Bowie e Queen nel celebre brano “Under Pressure”.
L’amore ci spinge ad aprire gli occhi e a guardare il mondo attraverso nuove prospettive, facendoci desiderare di prendersi cura di sé e degli altri, soprattutto quando gli altri possono trovarsi in difficoltà.
Ma oramai l’amore è un qualcosa “fuori-moda”, ed è proprio la sua assenza che determina la mancanza di rispetto per se stessi e per gli altri, e quindi provoca la rovina del genere umano, in quanto lo stesso essere umano diventa fonte di distress per se medesimo.
Con questo articolo, spero di avervi offerto una lettura interessante e degli originali spunti di riflessione.
Alla prossima!
Maria Romanelli
Comments