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Immagine del redattoreMaria Romanelli

Tempesta del Pensiero: Coltiviamo la cultura - un inno alla vita

Ciao a tutt* :)


Questo è il diciannovesimo articolo della rubrica “Tempesta del Pensiero” all’interno del blog Momenti DiVersi.


Questo mese vi propongo una dissertazione inerente ad un tema a me molto caro, di cui ho parlato indirettamente in altri articoli, ma al quale, questa volta, voglio dare il risalto degno dell’importanza che riveste (o meglio dire “dovrebbe rivestire”) nella nostra vita: la cultura e soprattutto il fatto di doverla “coltivare”. Ho scelto

l’espressione “coltivare la cultura” perché sembra quasi un ossimoro, nel senso che, quando si sente parlare di coltivazione, si pensa all’agricoltura, e di solito nella mente appare l’immagine di un contadino dell’età dei nostri nonni e bisnonni, che è “incolto” nel senso che è “ignorante” perché, essendo stato occupato nel gravoso lavoro dei campi fin dalla tenera età, non è potuto andare a scuola. Adesso questa asserzione risulterebbe banalmente insulsa, perché per tenere in piedi un’azienda agricola, oltre a caratteristiche personologiche quali la lungimiranza e l’intraprendenza, servono vari titoli di studio; tuttavia, anche cento/cinquant’anni fa, sebbene ci fossero persone che, a causa delle condizioni sociali meno abbienti, non si sono potute permettersi il lusso di andare a scuola, esisteva comunque la possibilità di accedere ad un tipo di sapere diverso rispetto a quello che conosciamo in questi tempi moderni, ma si trattava pur sempre di “cultura”.


Tutto questo per dire che la cultura, volente o nolente, ci circonda e accompagna ogni istante della nostra vita, sia che ne siamo consapevoli, sia che non si voglia

oppure non si sia capaci di rendercene conto.


E molto spesso “cultura” non è sinonimo di “essere andati a scuola da prima di nascere”, perché non basta stare seduti dietro ad un banco per imparare, se si passano più di venti anni a non ascoltare fissando il vuoto; e purtroppo, spesso non basta nemmeno applicarsi nell'apprendimento delle varie discipline poiché tale processo è ostacolato dall'incapacità degli insegnanti di trasmettere i concetti di base, sui quali quindi non potranno essere costruite le impalcature del sapere perché troppo vecchie, se le nozioni non sono aggiornate, e traballanti, se i concetti sono stati spiegati malamente tanto da esserne compromessa la comprensione.


La terra, nostra madre, tanto generosa da darci i suoi frutti così come sono, oppure trasformati per esser consumati dagli altri animali di cui poi noi possiamo ugualmente cibarci, rappresenta la base della nostra vita “fisiologica”, se così vogliamo chiamare quella parte di noi che deve occuparsi della sopravvivenza del nostro organismo in termini di accumulo e dispendio di energia biochimica. Tuttavia, la terra deve essere lavorata con intelligenza, ma anche con amore, e tutte quelle meravigliose qualità che l’essere umano possiede quando sa osservare il mondo attorno a sé, quando sa valutare le situazioni e riesce quindi a trovare le soluzioni adeguate a ciascuna circostanza, per il proprio benessere, ma anche per quello del mondo che lo circonda, così da realizzare una crescita globale dell’intero ecosistema che si autosostiene, nell’armonia del rispetto reciproco.


E questo risultato può essere ottenuto grazie alla cultura.


Mi rendo conto che questa affermazione straripa di ottimismo, perché se il rapporto tra esseri umani e Natura fosse mai stato questo, non saremmo arrivati al punto da incolpare i bovini per l'inquinamento atmosferico, mentre si considera normale lo scaricare i rifiuti tossici in mare.


E allora ci possiamo chiedere:


Perché parlare di cultura?

A cosa serve la cultura?

Perché bisogna “coltivare la cultura”?



Sono tutte domande lecite, a cui, purtroppo, si può rispondere solo attraverso un’altra domanda altrettanto ambigua, quale: “la cultura fa da ponte tra noi e il mondo che ci circonda, così da permetterci di raggiungere quelle conoscenze che altrimenti non potremmo avere se rimanessimo confinati nello spazio limitato di noi stessi; tuttavia, questa cultura ci aiuterà a comprendere la vera essenza di ciò che si trova al di là di questo ponte, e quindi di noi stessi?”


Attraverso la cultura intesa come “informarsi sulle questioni storiche / sociali / politiche / economiche che si succedono nei vari paesi e nelle varie epoche”, sempre che tali informazioni siano veritiere almeno il 50% delle volte, si impara a osservare con sguardo critico il mondo, rischiando di diventare cinici e sospettosi nei confronti di qualunque cosa, perché tutto potrebbe rivelarsi una minaccia alla salute, alla libertà e alla vita stessa, in quanto tanta informazione spesso confonde, invece di fare

chiarezza. Grazie alla cultura intesa come “arte espressa sottoforma di letteratura, cinema, pittura, musica e chi ne ha più ne metta”, si imparano altrettante lezioni di vita osservando il mondo attraverso gli occhi degli artisti che hanno lasciato parte dei loro cuori nelle opere da loro create, e se questo ci può avvicinare alla comprensione della realtà, ci allontana altrettanto da essa, in quanto la realtà proposta è pur sempre rappresentata attraverso i filtri della propria immaginazione e del proprio sentire.

Come per tutte le cose, bisognerebbe assumere la giusta dose di cultura, nei tempi e nelle circostanze adeguate, perché attraverso la conoscenza, si può giudicare obiettivamente il mondo così da interpretare la realtà per quella che è, e compiere scelte consapevoli, liberi dalle catene create dai falsi miti e dagli erronei stereotipi. Tuttavia, c’è altresì bisogno di usare la cultura per immaginare universi alternativi a ciò che ci viene proposto nel quotidiano, i quali addolciscono le pillole amare che la realtà ci somministra, e che contemporaneamente rappresentano una fonte di ispirazione per escogitare soluzioni e compromessi che possono essere realmente applicati per migliorare la propria vita.


La cultura; quindi, dovrebbe permettere di rimanere con “i piedi per terra”, distinguendo la realtà dalla finzione, così da capire l’essenza delle cose nell’immediato, ma anche di comprendere cosa ci sia al di là di ciò che appare, per trovare il modo di conciliare le visioni astratte create dai sogni con la realtà, così che in futuro tali visioni si concretizzino in una realtà modificata in meglio da queste.

Kant sarebbe d’accordo con me, con la sua risposta alla domanda “Was ist Aufklärung?”, inno alla libertà che la cultura consente di raggiungere, così da non dover più essere costretti a sottostare a coloro i quali, “prendendo gli altri per mano, e illudendo di poter offrire una vita meno gravosa e più tranquilla, perché si incaricano di pensare al posto degli altri”, decidono della vita altrui come pare e piace a loro, per trarre vantaggio a discapito dei miserabili della cui protezione fingono di occuparsi.


Perché essere ignoranti e non porsi domande su di sé e su quello che succede attorno a sé espone al rischio di essere soggiogati da persone altrettanto ignoranti, ma più cattive di quelle da loro sottomesse, e tale cattiveria spinge le persone ad essere in balia della paura, la quale genera sofferenze: l’ignoranza impedisce di distinguere ciò che è bene da ciò che è male, quindi genera confusione e inquietudine; per questo

motivo ci rende schiavi della paura, conducendoci a considerare ogni cosa e ogni persona come una potenziale minaccia. In questo modo, precipitiamo negli abissi della confusione, e saremo propensi ad ingaggiare guerra con il mondo intero, trasformando la paura provata in seguito alla condizione di ignoranza in cui permaniamo, in un’arma per difenderci dallo stesso buio che ci attanaglia.


E per sopportare lo sconforto generato dal buio in cui l’ignoranza ci confina, cerchiamo di trascinare nel buio anche altre persone, così queste saranno sopraffatte sia dalla paura di essere puniti se dovessero contraddire i bulli che le perseguitano, sia dalla paura insita ad ogni essere vivente, ossia quella di rischiare di “conoscere il mondo”; opera che richiede di riflettere attentamente su tante questioni per compiere

scelte che spesso, invece di essere espressione di libertà, sono autentici sacrifici. Offrire, quindi, un’illusoria ancora di salvezza, rappresentata dal non considerare l’esistenza dei problemi del quotidiano, consente ai prepotenti-ignoranti di mettersi a capo di quelli che affidano la custodia dei propri cervelli nelle loro mani, così da illudersi a loro volta di essere liberi dal buio da loro temuto, perché si destreggiano nelle trame della prigione intellettuale da loro intrecciata attorno alle proprie vittime. In realtà, questa "ala protettiva" proiettata dall’ombra di tale malvagità, immerge questi oppressi in oscurità ancora più insidiose di quelle in cui sono impantanati gli aguzzini stessi.


Ma in fondo, a volte, non è forse meglio restare ignari dei problemi e delle questioni complicate, così da non dover faticare fisicamente e mentalmente per trovare delle soluzioni? Soprattutto quando i problemi ci coinvolgono indirettamente perché lontani geograficamente e temporalmente da noi, consolandoci con il fatto che, quando potrebbero sopraggiungere, forse saremo morti?


Come asserisce Oscar Wilde in uno dei suoi più celebri aforismi, "l’ignoranza è come un frutto esotico delicato", per cui, se questo venisse deturpato anche da un lieve tocco, la sua freschezza verrebbe meno. Perfettamente in contrasto con l’affermazione che sottende la mia dissertazione, anche l’ignoranza è terra feconda che viene coltivata dalla paura e dalla pigrizia, e se si volesse portarla a maturazione, dovrebbe essere custodita gelosamente dalle erbe infestanti della conoscenza, le quali “cercano in ogni modo di rovinare tale coltura”. E non saremmo forse più felici, se

dovessimo soltanto alzarci al mattino perché fa giorno; mangiare perché si ha fame; andare in bagno perché scappa; dormire perché è notte, quindi senza doversi preoccupare di altre questioni se non dei bisogni che si fanno sentire al momento, e soprattutto senza la pretesa di chiedersi se le cose possono andare diversamente, limitandosi a prendere la vita come viene, evitando di osservare, valutare, poi riflettere su quali cambiamenti potrebbero essere apportati per poi portarli a compimento, rischiando non solo di sprecare molte energie, ma soprattutto di fallire, dopo un tale lavorio, rendendosi conto che non ne valeva la pena?


In fondo, non è forse vero che, nel momento in cui si impara qualcosa, alla fin fine, non si è contenti di aver ottenuto tale risultato, perché poi, una volta superato, si aprono mille e più strade con altrettante barriere da superare per conoscere cosa vi si nasconde dietro? Non era forse la libertà che doveva essere garantita dalla cultura? E siamo forse liberi quando non si può fare a meno di correre dietro alle chimere del sapere inaccessibile, le cui leggi non sono ancora state scoperte, perché ancora nessuno le immagina?


Sapere di non sapere non ci pone in gabbia,

come accade a coloro che non sanno di non sapere?


Forse chi si rende conto che ci sarebbero tanti mondi da conoscere vive con molta più

ansia rispetto a chi non si pone nessuna domanda; soprattutto quando si rende conto che non soltanto l’universo esterno è relativo, ma che anche qualsiasi cosa inerente lo stesso “Io interiore” lo è. Non si sprofonda nell'inquietudine al pensiero che ogni conoscenza raggiunta fino a questo istante potrebbe in realtà essere confutata perché, alla base, il soggetto pensate non conosceva se stesso, e tale ignoranza lo ha portato a vedere il mondo esterno attraverso un filtro fuorviante?


Chi può essere così sicuro da conoscere perfettamente se stesso, quando basta allontanarsi dalla civiltà, sprofondare nelle viscere di una natura incontaminata, e dimenticare chi si è, trasformandosi in entità dalla vacua essenza, ma da un’insopprimibile violenta bestialità?


Questa domanda ha catturato la mia attenzione dopo aver letto due romanzi meravigliosi: “Heart of Darkness”, celebre opera di Joseph Conrad, e “The Lord of the

Flies” di William Golding.

“Heart of Darkness” rappresenta un’invettiva contro gli orrori su cui si reggono l’economia e il benessere della società civilizzata, ossia lo sfruttamento delle popolazioni indigene e delle loro terre, ponendo il lettore di fronte all’ambiguità del male rappresentato sia dai selvaggi, in quanto sono genti dalle usanze arretrate, che ancora non si sono evoluti e non dispongono dei mezzi per rendersi conto che la violenza non è l’unico strumento grazie al quale si può convivere; sia dagli stessi esseri umani “civilizzati”, i quali dovrebbero farsi portavoce degli ideali di “condivisione del proprio sapere”, così da permettere anche agli altri di raggiungere un tenore di vita decente, permettendo che prosperino il benessere fisico e la libertà di pensiero, attraverso i quali si può instaurare una convivenza tranquilla, garantendo la pace tra le genti.

In altre parole:


chi già beneficia della civiltà

dovrebbe supportare gli altri nel

conseguimento della stessa civiltà.



Tuttavia, privare gli ignoranti della cultura e adoperarsi affinché non la possano raggiungere così da sfruttare la loro misera, fa sì che chi dispone della cultura si comporta come coloro che ne sono privi.

Quindi, il male è connaturato all’indole dell’essere umano, che al tempo stesso teme ed è affascinato da questo lato violento e animalesco della propria personalità.




L’uomo produce il male in quanto l’uomo è un prodotto del male stesso.


E forse è meglio mettersi a nudo e mostrarsi per i mostri che si è, senza filtri, seguendo l’esempio dei selvaggi, rispetto a mascherare tale malvagità sotto le vesti di pie azioni mosse da vani ideali di condivisione della propria cultura e civiltà, quando si fa di tutto per tenerle nascoste, e perfino per rinnegarle con ostinata prepotenza, come accade ai bambini protagonisti de “The Lord of Flies”.


E a questo io rispondo parafrasando le parole di Candido, protagonista del romanzo di Voltaire a cui dà il titolo, ossia “on doit cultiver notre jardin”. Essendo tale opera una

sarcastica denuncia nei confronti dei progetti provvidenziali della metafisica, rifiutando la visione ottimistica, cardine di questa corrente filosofica, possiamo interpretare le parole “dobbiamo coltivare il nostro giardino” come il dovere di prenderci cura di noi attraverso l’esercizio della ragione, senza indossare paraocchi, senza credere di essere gli unici e soli abitanti del pianeta, mossi ad interagire con il mondo esterno solo dal desiderio di dominare gli altri attraverso la diffusione dell’ignoranza, che si rivela per essere untore di paura e violenza.


La cultura deve essere diffusa in maniera adeguata, perché ognuno ha il diritto di raggiungere, grazie ad essa, un livello di civiltà tale da assicurare il benessere individuale e comunitario. Parafrasando il saggio “Dell’educazione” di Michel De Montaigne, il nostro cervello è come lo stomaco: non bisogna ingurgitare troppe nozioni tutte insieme altrimenti avremo un’indigestione che ci rallenterà nell’atto di comprendere a pieno quello che dovrebbe esser stato appreso, e in breve tempo, una volta sturato “un metaforico antro pilorico”, tutto finirà in un "metaforico intestino" fin verso l’esterno, e sarà tutto dimenticato; invece bisogna avere il tempo di consolidare ogni nuova conoscenza per comprenderla e apprenderla veramente, al fine di non trasformare le ardenti fiamme della curiosità in un fumo denso che confonde e induce all’errore.


Quindi, infine, possiamo paragonare la nostra voglia, e anche il nostro bisogno di conoscere, a una fiamma, la quale, con le sue lingue ardenti, ricorda una pianta dalle rigogliose ramificazioni, la quale deve essere tenuta in vita, perché con la sua forza e il suo calore, porta la vita in noi, spingendoci ad evolverci sulla solida base delle

nostre origini. Questa fiorente fiamma deve essere adeguatamente addomesticata a seconda delle circostanze, per evitare che ci bruci, come succede ad Ulisse nell'opera "Inferno" di Dante Alighieri; ma deve essere anche lasciata libera, sempre nei limiti della legalità, di svilupparsi nella sua sincerità e naturalezza, perché abbiamo necessità di mantenere sempre un contatto con la nostra autentica essenza, come i selvaggi che vivono nella natura incontaminata, culla ancestrale della nostra verità.


Per cui, è necessario che il fine ultimo della vita umana sia quello di perseguire la conoscenza per generare nuova vita, ed è essenziale ricordare che “fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”, come recita Ulisse quando conversa con Dante Alighieri: è essenziale conoscere se stessi e ciò che esiste al di fuori di noi, al fine di non perderci nei meandri dello sciocco sospetto e dell’inutile paura indotti dall’ignoranza, apprezzando la cultura come parte di noi e del mondo di cui facciamo parte, senza cercare in essa chimere irraggiungibili, altrettanto fallaci e confondenti, evitando di diventare schiavi di un “sapere ignoto”, che non ci rende liberi e ci fa dimenticare qual è la nostra natura.


Con questi vari spunti di riflessione vi lascio, sperando che l’articolo sia di vostro gradimento, e che susciti in voi interesse e curiosità.


Alla prossima!


Maria Romanelli

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