Ti hanno vista camminare nel bosco. Il laccetto del tuo vestito di seta scivolava ad ogni passo, ti ricomponevi sfiorandoti la spalla con noncuranza e in quella movenza cercavi di uscire dal tuo corpo. Lo facevi con una sorta di danza sconosciuta, un tentativo goffo di abbandonarti, di congedarti in maniera armonica da te stessa. Tu, che equilibrata non lo eri mai stata.
Ti hanno vista camminare con quell’abito pregiato color cipria, le spalle morbide, le caviglie bianche.
Ti mostravi coerente come la linea dell’orizzonte che ti prefiggevi di salutare dalla cima più alta, ogni sera, prima di andare a letto in compagnia delle libellule. Avevi bisogno di quella traccia lontana per sentire distanza da tutte le cose.
La tua interiorità custodiva richiami, scalciava come fosse in attesa di liberarsi a cavallo.
Eri colma di parole, Eco. Erano vaste e inebrianti come le valli che nei tuoi sogni eri sempre intenta a cavalcare. Eri fatta della stessa sostanza.
Qualche dio ti ha punito, facendo peggio del lasciarti muta: ti ha spezzata nelle parole.
Si vociferava in giro che quella ninfa un po' stralunata aveva cominciato a perdere l'equilibrio emotivo come i discorsi che nella testa le finivano risucchiati da un buco nero. Questa eri tu.
Anche se dentro la tua oscurità il monologo continuava, in alcun modo sapevi schiarirlo nella luce esterna, in un incontro gentile con l'Altro.
Più cercavi di calmarti, più lo stesso ossigeno di cui eri sazia arrivava a soffocarti. Ogni parola sul punto di saltare dal precipizio della tua bocca perdeva vigore a contatto con quella sovrabbondanza di aria.
Era uno strazio - di ossessioni e di pensieri - che si infittivano come le foreste che tanto amavi...
A volte agitavi le braccia, cercando di accompagnare quelle poche sillabe che avevano ancora la capacità di spingersi fuori a offrire una spiegazione; il resto delle volte era fallimento. Quello che è certo è che la tua interferenza scandiva il tempo alla misura del ritardo.
Accadeva sempre così, ogni volta. Ogni volta che dovevi esporti per spiegare un’esperienza; ogni volta che un uomo ti colpiva - le parole, come un vortice, si avvitavano sulle caviglie e sui polsi e ti mettevano in prigione i pensieri e i ricordi di carta vetrata.
Anche chi disponibile tentava un ascolto cascava con te in quel vuoto, si ritrovava spolpato e si congedava non senza prima essersi scusato con un palmo di mano davanti al corpo, in segno di arresa a quel non so ché.
Inseguivi gli uomini e ne studiavi i nomi, eri condannata a ripeterli oltre il primo scambio di strette di mano. Inseguivi gli uomini e li consideravi sentieri tracciati, riconoscevi la tua sopravvivenza in quei segnali. Ti sbagliavi.
Cercavi sicurezze a cui aggrapparti. Ti bloccavi all'evidenza perché avevi bisogno di prove.
Ma un amore non lo è più, se per esistere deve essere tangibile...
Un amore è un fiume: è acqua che fa il solletico a mani che tentano invano una presa; non ha argini se non nei fianchi che leviga nella solitudine come un bravo scultore...
Stramba ragazza, non riuscivi ad arrenderti alle tue idee fuori dal normale, continuavi a bruciare sentimenti come si accendono d’improvviso, dopo tanto vento, quegli incendi in campi dalla terra gialla e abbandonata.
Ti infiammavi in quelle emozioni. Non contenta, ti assicuravi di riviverle perché tu amavi camminare scalza... Amavi sentire il fastidio dei tuoi turbamenti.
Ti imbattevi in uomini di vetro perché desideravi uno specchio di occhi in cui poterti riconoscere.
All'inizio sembrava eccitante, ma persone così sono impermeabili e fragili e fanno rimbalzare ogni sensazione di calore e ogni forma di affetto. Dimmi, come può comunicare l’abbraccio del fuoco con il fare gelido di una lastra di vetro?
Presto dentro di te si faceva largo una sorta di disperazione silente ma attentamente coltivata.
Lo specchio è un gioco di luci e l'ombra siede un po' più in là a gambe incrociate e aspetta - aspetta il proprio turno. Specchiarsi non significa dissolversi nella macchia scura né nella scintilla di un Altro.
Come hai potuto farti questo?
Ecco il tuo vuoto sulla soglia di ogni finto amore, ecco il tuo ladro.
La tua anima, Eco, non ha bisogno di un vetro ma di sole.
La tua anima ha bisogno anche della luna per riposare le proprie stanchezze, delle pieghe del giorno per far uscire dal buio l'esplosione di dolore che sei. Un dolore così prepotente – lo stesso sole è cieco davanti a te - e ti chiede scusa per non aver capito.
Dovevi rompere tutta la stanza degli specchi, Eco.
Dovevi farlo nella tua beltà , dovevi farlo prima, quando ancora sapevi.
Non sapevi tessere relazioni umane, sapevi però incantare nel racconto di come nel bosco un filo d’erba nasce.
Un giorno a labbra chiuse hai gridato a te stessa che avresti smesso.
Sì, avresti smesso di seguire gli altri, ma anche tutte le parole che ti erano sfuggite e che non potevi più recuperare. Per non parlare di quelle che non avevano un’unica pronuncia.
E così che ti sei allontanata dai tuoi amati alberi, hai raggiunto i fianchi delle montagne e ti sei rannicchiata come un feto, sperando che a farti dissolvere fosse l'amore per la natura - e non il dolore.
Hai cominciato a piangere da muta tutte le tue lacrime. Nessuna ha toccato terra. Erano troppo preziose: sono evaporate prima, come hai fatto tu.
Con un colpo i tuoi capelli se li è portati via il vento; il tuo corpo dal basso si è pietrificato e - vena dopo vena - si è solidificato in sassi di fiume.
Sopra a giovani radici intrecciate - quelle stesse radici strappate da ogni tua lettera caduta fuori dalla realtà – un nido è diventato casa per rondini...
Come hanno fatto ad arrivare fino a lì?
Intenta com’eri a ricongiungerti con i contorni perfetti dei tuoi luoghi non hai fatto in tempo ad accorgerti che i tuoi occhi - come le tue mani - sarebbero morti asfissiati se una intuizione non avesse permesso alle dita di alzarsi e agli occhi di cercare, con un movimento secco diretto al cielo, un’ultima vertigine. La vista e il tatto si sono dilatati come il tuo cuore: uno strappo e un nastro di seta hanno liberato le zampine di poche rondini, tutt’ora tue compagne di crepuscoli un po’ difficili da dipingere in solitudine.
É rimasta la tua voce di Donna, ospite e padrona di luoghi incontaminati, vergini come il canto che premeva sul tuo ventre e che nel verde del tuo sguardo fuoriusciva, come dai tronchi la resina.
Adesso che puoi volare e gridare hai imparato il silenzio e ti curi solo di bisbigliare nella mente degli uomini dubbi e fragilità .
Sei diventata esigente, premi perché comprendano quanto pesi annullarsi per mettersi in ascolto.
E’ così che tu, Eco, ti sei trasformata in Pensiero.
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