top of page

UROBORO: METAFORA DELLA SOCIETÀ L'ennesimo articolo sulla violenza? No, un articolo di uomini e di donne




L’uroboro è un serpente-drago che si morde la coda, creando così un cerchio, figura geometrica che non ha inizio né fine. Questo simbolo, scovato per la prima volta in un testo funerario egizio, rappresenta l’energia che si consuma e si rinnova di continuo.

Per me la società in cui viviamo è un uroboro, perché sembra ferma, immobile, ma in continuo movimento. È un uroboro perché sembra cambiare, ma in realtà il suo sistema malato continua a ripetersi.

A fine agosto sentii al telegiornale una notizia che mi sconvolse. Una ragazza a Palermo era stata stuprata da sette ragazzi. Mi colpì per ragioni "patriottiche" date le origini siciliane della ragazza e dei ragazzi? Può darsi. Ma a farmi piangere lacrime amare furono le frasi che quei ragazzi le gridavano durante i ripetuti stupri. Come si può sopravvivere a una cosa del genere? Come si può andare avanti?

Mentre pensavo all'accaduto mi sono vergognata. Era da tempo che non mi sconvolgeva più sentire una notizia di stupro. Ci hanno assuefatti. Siamo ormai saturi di notizie di cronaca, di violenza, di odio. Ci stiamo convincendo che il mondo ormai vada così, a rotoli, governato dal caos.

A quel punto mi alzai dal letto, presi il mio pc e decisi di fare qualcosa. Non sapevo bene cosa, ma qualcosa dovevo pur farla. Non per gli altri, non per la ragazza stuprata, non per i ragazzi che hanno compiuto quest'atto barbaro, per me. Principalmente per me. Per stare meglio, per sfogare tutto il male che sentivo dentro in quanto donna ma soprattutto in quanto ESSERE UMANO.

Fu così che iniziai a scrivere "Uroboro". È un monologo, a parlare è una ragazza. Attenzione, una ragazza, non una vittima. E lei ci tiene a precisarlo: io non sono un titolo di articolo di cronaca. Io sono una Donna. Io sono un Essere Umano. Non sono una vittima.

Questa ragazza ci parla di donne, di uomini, dell'amore, della maternità che lei non avrà mai la fortuna di vivere perché troppo presto le è stata tolta questa possibilità.

Ci racconta anche ciò che le è successo nell'ultima ora della sua vita, ma in minima parte, perché per lei lo stupro è sì il soggetto principale della storia, ma lei non vuole che le rubi interamente la scena. È lei la protagonista, non lo stupro.

E poi sarebbe stato per me troppo scomodo parlare di qualcosa che finora non ho vissuto (e che spero di non vivere mai). Io credo fermamente che per parlare di certe cose bisogna prima sperimentarle sulla propria pelle, non basta essere empatici, certe cose sono troppo grandi. Quindi faccio parlare la ragazza ma è come se lo stessi facendo io. Quando lei difende gli uomini - lei continua ad amare gli uomini perché sa che chi le ha fatto del male non lo è - e dice "Non stupiamoci se un uomo viene deriso o picchiato se non è macho, se mostra i suoi sentimenti come una brava femminuccia, se si veste di rosa o se esprime una qualsiasi inclinazione artistica (...) Stasera ho visto donne usare il femminismo per il loro tornaconto, gridare all’uguaglianza ma scardinare l’uomo dal suo legittimo posto nella società in quanto essere umano", o quando lei parla della maternità e immagina la gioia di "poter vedere crescere una creatura dentro il mio corpo, di sentire il cuoricino del mio bambino battere in sincronia col mio", quella ragazza sono io. Allora forse non siamo così diverse da chi ha la propria foto stampata sui giornali perché è stata stuprata, o uccisa, o picchiata, o molestata.

Di seguito trovate "Uroboro". Questo monologo è stato pubblicato nella terza edizione della rivista cartacea "MomentiDiVersi", in uscita il 16 dicembre, in collaborazione con Le Donne di Artemisia e Poesie Metropolitane. In questi giorni ho meditato tanto sul rendere pubblico o meno questo monologo, poi ho capito che forse era la scelta migliore. In un periodo in cui si sente parlare incessantemente di violenza e femminicidi non potevo e non volevo "guadagnare" su una storia di stupro - anche se il costo della rivista serve a sovvenzionare le successive ristampe ed edizioni, non paga il lavoro svolto da ogni membro della redazione -. Lo ripeto, questo monologo è nato per essere innanzitutto uno sfogo personale, non ha lo scopo di cambiare il mondo o le persone, io non sono nessuno per farlo. Ma se anche uno solo di voi lettori metterà in pausa il tran tran quotidiano e si prenderà del tempo per leggere le mie parole e riflettere su un tema molto delicato, vuol dire che avrò raggiunto il mio obiettivo. Questo vorrei, far riflettere su quanto tutti, uomini e donne, donne e uomini, siamo vittime di stereotipi, di etichette, di gabbie. Solo riflettere, non cambiare. Ho scelto un tema scomodo, trito e ritrito, io sono consapevole della grandissima responsabilità che ho (e sento tantissimo) sulle spalle. Spero di non essere stata banale o scontata, a voi il giudizio.



Chi di voi si ricorda delle cassette si ricorderà sicuramente del tasto rewind che “riavvolgeva il nastro” e permetteva di tornare indietro. Sarebbe bello poterlo fare anche con la vita. Sarebbe bello se io, adesso, avessi la possibilità di riavvolgere in un nastro questa serata e riportarla all’inizio, prima di entrare in questo maledetto pub e di ubriacarmi fino a non reggermi più in piedi. Così eviterei di essere stuprata e uccisa per aver provato a liberarmi del peso della, come posso dire, della virilità che spingeva prepotente sul mio corpo.

Alla fine, me la sono cercata. Vi prego, non fate questa faccia. Non prendiamoci in giro: so che lo state pensando. Non siate ipocriti. E avete perfettamente ragione. Nella società in cui viviamo una donna non può vestirsi come vuole o bere quanto vuole, perché la stessa società che si definisce civile è di per sé malata. Perciò, non stupiamoci se un uomo viene deriso o picchiato se non è macho, se mostra i suoi sentimenti come una brava femminuccia, se si veste di rosa o se esprime una qualsiasi inclinazione artistica. Non stupiamoci se una donna viene stuprata, picchiata a sangue e uccisa se ha un momento di debolezza e decide di annegare i propri pensieri nell’alcol, perdendo per un paio d’ore il controllo di sé. Due ore sono troppe, anche due minuti sono troppi quando sei una pecora in mezzo a un branco di lupi. In un secondo tutto può cambiare, in uno schiocco di dita ti ritrovi stesa a terra, denudata della tua dignità, con un peso che ti comprime il petto, la bocca, il ventre, e ti sembra di morire. All’inizio hai paura di non poter più respirare, poi inizi a pensare che la morte, in fondo, non è poi così male, che è la parentesi che chiude una triste storia, troppo triste per essere ricordata. Io stasera sono morta, e in tal modo mi sono liberata della puzza di stupro sulla mia pelle. In tal modo non dovrò, ogni giorno, sentirmi perennemente gli occhi di tutti addosso che commentano con: “quella è la ragazza violentata”, “certo che ha proprio una faccia da troia”, “poteva evitare di uscire da sola, conciata in quel modo”, non dovrò svegliarmi nel pieno della notte in preda agli incubi e agli attacchi di panico… È anche vero che la mia vita sarebbe comunque finita questa notte, perché io non riesco ad essere indifferente a ciò che mi succede intorno, e certe parole sarebbero state per me troppo da sopportare. Come ciò che mi hai detto quando mi hai spinto a terra, mi hai sollevato il vestito, mi hai strappato le mutande di dosso e hai fatto di me carne da macello. Mi hai gridato: “Puttana, sei solo una puttana. Questo è ciò che meriti: essere sbattuta così forte da svenire, riprendere i sensi e chiedere pietà… Ma tanto tu ci sei abituata, no?”.

Io sono solo un’illusa. Credevo di essere giovane e dunque di poter prendermi il lusso di fare ciò che volevo senza la costante paura di essere in pericolo. Che idiota. Stasera mi è tutto più chiaro. Stasera ho capito che ci sono “uomini” che si nascondono dietro la maschera del femminismo ma che alla prima occasione affondano le stesse donne perché hanno paura di perdere i loro diritti sudati nel corso dei secoli attraverso la lenta ed efficace costruzione di un sistema patriarcale.

Stasera ho visto donne usare il femminismo per il loro tornaconto, gridare all’uguaglianza ma scardinare l’uomo dal suo legittimo posto nella società in quanto essere umano. Per fare un esempio, queste donne sono le stesse che vanno fiere nel considerare il ruolo di padre inferiore, se non quasi inutile, nella crescita di un figlio. Queste donne sono le stesse che l’otto marzo, invece di camminare per strada nei cortei per ricordare a tutti che le donne esistono e hanno una voce, vanno in giro per locali, strumentalizzano un’occasione di lotta per cose che con la lotta non hanno niente a che vedere… lungi da me la critica, cara donna, sei liberissima di fare tutto ciò che vuoi, ma ti prego, non nasconderti dietro lo stendardo del femminismo. Così distruggi tutta la mia lotta. Così distruggi tutta la nostra lotta. Queste donne, portatrici insane di “femminismo deviato”, sono le stesse che ti gridano “troia” non appena sei più bella, più intelligente, più capace di loro. Altro che solidarietà femminile… Perché bisogna sempre associare la parola donna a quella di meretrice? E pensare che io da piccola la associavo sempre a quella di mamma. Mi ha sempre emozionato l’idea di poter vedere crescere una creatura dentro il mio corpo, di sentire il cuoricino del mio bambino battere in sincronia col mio, di percepire la forza della natura che fa sentire ogni donna e neomamma invincibile. Adesso ho capito che essere donna non è necessariamente essere mamma, che una donna (in teoria) può scegliere di diventare o meno genitore – e non parlo solo delle lesbiche, ma anche delle etero –, ma so per certo che donna non è sinonimo di puttana.

Ti prego, non chiamarmici, tu non mi conosci, non sai la mia storia. Uomo, non chiamarmi puttana solo perché sono una donna. Donna, non chiamarmi puttana, proprio perché anche tu sei donna e vittima come me. Forse se avessi trovato la forza e il coraggio di prenderti il viso e costringerti a guardarmi negli occhi e ad ascoltare queste mie parole… forse ti saresti fermato, forse avresti capito il male che stavi facendo a un essere umano come te. O forse no.

Mi senti? Almeno adesso, sforzati di ascoltare. Sì, sto parlando con te, proprio con te… so che non sei tu il carnefice, l’esecutore materiale del reato (è definito reato dalla legge?), ma fino a quando assocerai la parola “donna” a quella di “prostituta”, allora mi starai uccidendo anche tu.

Ecco cosa siamo diventate. Testate di articoli da giornale. Una dopo l’altra, ogni giorno, a ruota libera. Ormai nemmeno ci facciamo più caso. Ci hanno assuefatti. Noi non siamo numeri marchiati su un braccio, titoli di articoli di cronaca nera, bambole con un’etichetta apposta ancor prima di nascere.

Noi siamo donne. Noi tutti siamo esseri umani. E io non smetterò mai di crederci. Così come non crederò mai che il mondo che cantava Modugno non fosse davvero “meraviglioso”, che non lo fossero il mare, il sole, la vita, l’amore. L’amore che non conoscerò mai e che non mi permetterà mai di tenere in braccio quel figlio che ho sempre idealizzato. Tra poco io finirò di parlare, il sole tramonterà, voi tornerete al vostro nido, vi addormenterete nel vostro letto soffice e caldo, forse mi dedicherete qualche lacrima, qualche pensiero, qualche preghiera. Ma domani la giostra continuerà a girare, e tutto si ripeterà, come un uroboro, all’infinito.

Adriana Cinardo


Per ascoltare "Uroboro" clicca qui:




Ringrazio Gina Muoio per aver prestato la sua voce e per aver creduto nel mio progetto.

Ringrazio Alessandro Molino per la sua disponibilità e professionalità.

Ringrazio Irene Mascio per aver accolto a braccia aperte, come sempre, questa mia idea. Il supporto non è mai scontato ed è fondamentale per la riuscita di un progetto, piccolo o grande che sia.


SEGUI MOMENTIDIVERSI








19 visualizzazioni0 commenti

Post recenti

Mostra tutti
bottom of page